Alessandro Maja, il killer di Samarate: né raptus, né malattia. Il piano per uccidere moglie e figli

Le motivazioni dell’ergastolo confermato in secondo grado: "L’assassino avrebbe potuto fermarsi. Il pentimento? È irrilevante"

Alessandro Maja e le sue vittime: la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia

Alessandro Maja e le sue vittime: la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia

Samarate, 28 febbraio 2024 – Alessandro Maja, finora, "ha taciuto sulle cause dei delitti ancora adesso del tutto incognite, soprattutto con riguardo alla violenza a danno della prole, e in particolare della figlia Giulia". Ha sterminato la sua famiglia per motivi "sfuggenti" e anche i contrasti e il rapporto "logoro" con la moglie possono "giustificare una separazione consensuale" ma non certo una "spinta omicidiaria".

Anche di fronte a "un orrendo delitto" senza una motivazione "causalmente forte" come questo, però, non è "nella psiche malata che va cercato ciò che sfugge all’universo logico del comune sentire", anche perché "il processo prova con la sua quotidiana realtà che non è così".

Lo ha messo nero su bianco la Corte d’Assise d’Appello di Milano (presidente Ivana Caputo e relatrice Franca Anelli) nelle motivazioni della sentenza, depositate ieri, con cui il 14 febbraio avevano confermato l’ergastolo per Alessandro Maja, l’interior designer che nel maggio 2022 ha massacrato la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia nella villetta di famiglia a Samarate, nel Varesotto, riducendo in fin di vita il primogenito Nicolò, unico sopravvissuto.

Respingendo l’istanza della difesa, che aveva chiesto una nuova perizia psichiatrica contestando i risultati di quella disposta nel processo di primo grado a Busto Arsizio, che aveva ritenuto Maja capace di intendere e di volere, la Corte conferma (sulla base delle "conclusioni coerenti" della perizia) che l’uomo quella notte era "pienamente capace di comprendere il disvalore di ciò che si accingeva a compiere" e avrebbe potuto "desistervi come ha saputo fare a favore di sè medesimo", quando ha attuato un maldestro tentativo di suicidio dopo la strage. Un disturbo psichico, per incidere sull’imputabilità, deve essere "tale da rendere l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti", ma così non è stato. Per questo Maja "deve rispondere dei reati commessi". Non ha agito "in un impeto" ma ha atteso il "sonno" della moglie e dei figli per colpire, e "la sopravvivenza di Nicolò è stata soltanto una fortunata coincidenza".

L’interior designer, rilasciando dichiarazioni spontanee in aula, ha speso parole di pentimento. Ma il pentimento, secondo i giudici, "non può che essere irrilevante dal punto di vista sanzionatorio". Ha piuttosto un valore "prognostico", legato al "percorso rieducativo" in carcere e a eventuali "benefici" sulla pena. I giudici hanno inoltre definito "apprezzabili gli sforzi economici" a favore del figlio, che sta affrontando un percorso di riabilitazione, sottolineando però che è "di minima entità rispetto al danno cagionato" e inoltre "il risarcimento è un obbligo di legge, non una graziosa liberalità".