Milano, 12 marzo 2016 - MASSIMO D’Alema sostiene che Matteo Renzi è un pericolo per la democrazia. La stessa cosa dice Silvio Berlusconi, con assai minore convinzione. Ma se il leader dell’opposizione moderata ricambia ritualmente quel che subì a suo tempo, l’uomo più influente di quello che fu il Pds-Ds-Pd scende in campo per rendere esplicito quel che da oltre un anno era implicito: il tentativo di abbattere con ogni mezzo il segretario del suo partito e presidente del Consiglio in carica. D’Alema è la punta di un iceberg che va formandosi fra i ghiacci delle elezioni comunali di giugno tra Roma, Napoli e Milano. Perché la rivolta della minoranza del Pd contro Renzi si è spinta sulla soglia di una scissione che non arriverà mai? Andiamo ai fondamentali. Nel 2012 Renzi perse le primarie con Pierluigi Bersani riportando il 40 per cento dei voti contro il 60. Prima delle elezioni dell’anno successivo ci fu una serrata trattativa per le candidature tra Vasco Errani, braccio destro di Bersani, e Luca Lotti, braccio destro di Renzi. I seggi sicuri – i posti del ‘listino’ del candidato premier – erano 130. Alla minoranza di Renzi ne andarono 16.
NON FU certo un trattamento di favore. Bersani era (ragionevolmente) convinto di vincere le elezioni, aveva già abbozzato la squadra di governo e immaginava di lasciare alla minoranza un ruolo di testimonianza. Renzi avrebbe fatto un secondo mandato come sindaco di Firenze in attesa di (lontani) tempi migliori. Le cose sono andate diversamente. Non è difficile immaginare come Renzi ricambierà alle prossime elezioni la cortesia ricevuta nel 2013. Alla minoranza andranno pochi posti: l’assenza di senatori eletti renderà verosimilmente ininfluente – nelle intenzioni del segretario – la presenza di oppositori interni tra i seggi dell’unica Camera esistente, quella dei deputati. «Il malessere può creare una nuova forza», dice D’Alema che accusa Renzi di distruggere il partito erede della grande sinistra italiana in favore di un già operante Partito della Nazione sostenuto da Verdini. Il malessere della minoranza non è certo clandestino, ma la «nuova forza» evocata da D’Alema lascia immaginare una scissione del tutto improbabile.
«IL NOSTRO posto è qui», ribadiscono i Bersani, i Cuperlo, gli Speranza, rinfoderando nella tasca il fazzoletto bagnato di lacrime. E allora, che senso ha questa battaglia di testimonianza? Ha senso perché nessuna scissione ha portato bene alla sinistra, perché Stefano Fassina – uscito coraggiosamente dal Pd – è anche uscito dal giro che conta. Perché bisognerà trattare seggio per seggio con l’eroica disperazione dei nostri tra l’Isonzo e il Piave sperando che nel prossimo parlamento la maggioranza assoluta alla quale punta Renzi sia condizionata dalla minoranza interna. Certo, i sospetti di Renzi che molti giochino allo sfascio è fondato. Perché dallo sfascio può rinascere la fenice di una sinistra più ortodossa e legata alle tradizioni. Ma è questo che vogliono gli elettori? Gli elettori, di qualunque partito, vogliono ritrovare il benessere perduto, una pizza in più al mese, un weekend in più all’anno, un lavoro e una casa per i figli. Renzi sa che queste cose non hanno colore o hanno il colore della Nazione: chiunque le faccia, è il benvenuto. Perciò il premier è più attento alle parole di Draghi e della Merkel piuttosto che a quelle di D’Alema. Perché il suo futuro è nella ripresa economica, piuttosto che nel dibattito interno al Pd.