
Un’immagine delle telecamere che hanno inchiodato l’organizzazione criminale
Vigevano, 4 agosto 2016 - Non solo armi ed estorsioni. I lomellini che si credevano (e agivano) come in Gomorra erano specializzati anche in furti e rapine. La lunga indagine dei carabinieri di Vigevano che il 7 luglio ha decapitato una organizzazione criminale che da anni stava lavorando per prendere il controllo del territorio, ha portato a una seconda tranche di avvisi di garanzia. Si tratta, in parte, di persone già finite nelle maglie della giustizia nel corso dell’operazione ‘“Cave canem” – 10 in carcere, 11 ai domiciliari e altre 3 sottoposte all’obbligo di firma con il divieto di uscire di casa nelle ore notturne – e in parte di soggetti che entrano per la prima volta nelle carte dell’inchiesta. Un’indagine lunga e complessa, che ha impegnato i militari del capitano Rocco Papaleo per oltre un anno e mezzo e che ha permesso di collegare tra loro una lunga serie di episodi avvenuti in città e nel suo hinterland negli ultimi anni. Tutto era partito dalle armi: sul territorio si era registrato un numero anomalo di furti, fatto che aveva richiamato l’attenzione degli investigatori che avevano iniziato a tessere le fila delle prime indagini. Da lì, nel tempo, erano emerse le altre attività dell’organizzazione: le estorsioni, i danneggiamenti spesso compiuti «per conto terzi» come una vera agenzia criminale.
Ma anche, e questo è il nuovo filone, i reati contro il patrimonio, in particolare rapine e furti. Parecchi episodi, compreso anche quello messo a segno nella primavera di due anni fa in tre locali attigui della zona della movida cittadina in pieno centro, la pizzeria Goa e gli attigui locali Cube e Kibo. Secondo le accuse, a colpire sarebbero stati Nicola Todaro, considerato uno dei capi dell’organizzazione, Jonathan Peragine e Andrea Merlin, due dei luogotenenti, e Marco Todaro con l’appoggio di Carmelo Rizzo, il basista interno. Il colpo aveva fruttato un bottino di almeno 12mila euro. Dopo aver messo a segno la razzia, la banda si era allontanata ignara del fatto che, oltre che dalle telecamere della videosorveglianza interna del locale, a seguire passo per passo ogni loro mossa c’erano i carabinieri, appostati nelle vicinanze e che da tempo stavano indagando sul loro conto. Per sviare i malviventi, gli investigatori avevano avallato la teoria che a colpire fosse stata una banda di ladri dell’est Europa, attiva in quel periodo sul territorio. E aggiustata era stata la ricostruzione del ritrovamento della cassaforte che era stata smurata dal locale derubato: i ladri l’avevano abbandonata nella zona industriale dalla parte opposta della città, per depistare le indagini. Anche in questo caso non sapendo che i “cani”, come chiamavano in gergo spregiativo i carabinieri, erano a pochi passi da loro. Così venne raccontato che a effettuare il ritrovamento era stato un passante.