Guerra dei microchip tra Usa e Cina: in ostaggio 200 posti di lavoro in Brianza. Ecco perché

La Micron di Vimercate non può più rifornire Pechino, per effetto delle sanzioni internazionali anericane. I sindacati: "Intervenga il governo"

Più di 200 posti di lavoro in Brianza si ritrovano al centro della guerra fra Oriente e Occidente che si combatte sul controllo della produzione di microchip, risorsa strategica per ogni processo industriale e per il collegamento fra produzione e informatica. "Minaccia per la sicurezza nazionale": con questa ragione la Cina ordina alla propria filiera tecnologica di non comprare più i semiconduttori commercializzati da Micron, colosso statunitense con forti radici in Lombardia. Il mercato asiatico vale il 10% dei 30,8 miliardi di dollari di fatturato della multinazionale delle memorie flash. La decisione del governo di Xi Jinping arriva alla fine di un G7 le cui conclusioni Pechino considera ostili ai propri interessi. E la scelta rimbalza a Vimercate, dove gli americani hanno uno dei quattro centri italiani di ricerca.

Un settore in fibrillazione da almeno due anni. Prima l’esplosione della domanda, quando durante la pandemia le aziende cinesi avevano bloccato l’esportazione dei microcircuiti di silicio, poi, a margine di grandi nuovi investimenti, una razionalizzazione dei costi ha messo in pericolo gli equilibri occupazionali. Lo stop alle esportazioni in Oriente comunicato ieri segna l’ultima escalation nel conflitto per il dominio tecnologico tra Washington e Pechino, che cercano reciprocamente di svincolarsi dalla dipendenza esterna in un settore chiave anche per la difesa. Il grande scacchiere mondiale porta conseguenze per la vita quotidiana dei lavoratori anche nel Vimercatese, sede di un importante distretto hi-tech. A marzo, uno sciopero aveva svelato la strategia di tagli programmata proprio da Micron, 548 dipendenti in Italia, che ha confermato la decisione di chiudere il sito di Padova e di trasferire il personale - 31 ingegneri - nelle altre sedi. A Vimercate ne arriverà una parte, gli altri saranno divisi fra Avezzano, in Abruzzo, e Arzano, in Campania. "Una scelta giustificata con la necessità di ridurre del 20% le spese sul personale nel mondo, attribuendo l’operazione alla necessità di un intervento strutturale", spiega Pietro Occhiuto, segretario della Fiom-Cgil Brianza.

Il timore dei sindacati è che "l’addio al Veneto sia solo il primo passo verso la dismissione della presenza nel Paese". Alla richiesta di presentare il piano industriale, aggiungono i metalmeccanici, "l’azienda non ha risposto, a dimostrazione del fatto che la messa in sicurezza del gruppo non è scontata. Il polo veneto non ha alcun motivo per essere chiuso. È una realtà importante con la progettazione avanzata di chip che finiscono su qualsiasi dispositivo che immagazzini informazioni come tablet, smartphone o computer". E questo era il quadro prima di ieri. Per Occhiuto "dopo la tegola Cina serve più che mai l’intervento del governo, che avevamo già chiesto senza avere risposte. Ma quel che è successo nelle ultime ore dimostra ancora una volta che non possiamo permetterci di perdere imprese che operano in un settore determinante. Qui c’è in gioco il futuro di tante famiglie e del Paese".