
di Cristina Bertolini
Medici insultati, maltrattati e minacciati. Il Covid e le attese snervanti per cure ed esami che si trascinano fino ad oggi hanno reso ancora più insofferenti i pazienti. E a farne le spese sono loro, medici e infermieri di reparto, di pronto soccorso e Guardia medica. Pure i medici di famiglia. Tanto che l’Ordine dei medici di Monza e Brianza, guidato da Carlo Maria Teruzzi, ha proposto ai dottori della Lombardia di “misurare“ i rischi con cui devono fare i conti ogni volta che entrano in servizio. Lo ha fatto con la tesi di laurea in Medicina e chirurgia di Claudio Perconte. La ricerca si è svolta con 24 domande, tra febbraio e marzo 2022, riferite ai due anni precedenti e ha coinvolto 1.295 medici di cui il 47% (670) della Provincia di Monza e Brianza. Il 22,9% lavora in struttura ospedaliera pubblica, il 19% è libero professionista e il 18,6% specialista ambulatoriale. Il 38% riferisce di essere stato vittima di violenza durante l’attività professionale.
Molestie e insulti sono all’ordine del giorno: è la forma di violenza che più spesso si verifica, infatti il 64,4% degli intervistati dichiara di esserne stato vittima negli ultimi dodici mesi. La minaccia è la seconda forma di violenza più diffusa, con il 59,6% di risposte positive. I dati si sovrappongono, perché molti dichiarano di aver ricevuto sia l’una sia l’altra. L’aggressione fisica è denunciata “solo“ dall’8,9% degli operatori, mentre il 4,4% dichiara di aver subito molestie sessuali nell’ultimo anno e l’1,8% molestia razziale. L’aggressore è molto frequentemente il paziente stesso (56,8%), nel 33,5% è un familiare o un conoscente accompagnatore. Nel 71,1% ad aggredire sono soprattutto gli uomini, di nazionalità italiana (l’87,9%). Sfatato il luogo comune delle aggressioni solo in pronto soccorso nelle notti di sabato e domenica, quando i servizi di routine sono chiusi. Gli eventi violenti si verificano nel 91% dei casi da lunedì a venerdì in piena mattinata (39,6%) o pomeriggio (54,4%). La reazione più comune è stata parlare con il collega con cui si è in confidenza (40,5%), con un familiare (29,9%) oppure comunicare l’evento al proprio responsabile (26,5%). Il 18,6% dichiara di aver comunicato l’evento ad Ats e il 14% alle forze dell’ordine. "Preoccupa il 24,6% di operatori che non ha fatto nulla – sottolinea Michele Riva, docente, coordinatore della ricerca – e che ha fatto finta che l’evento violento non fosse accaduto (7,3%). Faccio appello ai colleghi perché denuncino questi fatti. Occorre tolleranza zero". Solo il 3,6% per cento ha reagito fisicamente. Quasi una donna su due (il 46,4%) dichiara di aver subito almeno un atto di violenza negli ultimi 12 mesi contro il 29,4% dei colleghi maschi.
L’esperienza Covid ha segnato profondamente i medici e il loro modo di stare in reparto nei mesi più più critici, come ricorda Ester Bramati, specialista in medicina del lavoro e psicoterapeuta. "Il 16 marzo 2020 – ricorda – fui assegnata dall’Asst Bergamo est al reparto di terapia sub-intensiva. A fine telefonata tremavo visibilmente e mia figlia di 9 anni mi ha abbracciato in silenzio: lì ho sperimentato la terapia non verbale". Proprio il silenzio assordante di quei giorni è il ricordo più vivo: silenzio nei reparti, dove regnava solo il sibilo dell’ossigeno. Silenzio sulle autostrade e sulle strade, rotto solo dal suono delle sirene e dai rintocchi delle campane a morto. "Quello che ci ha salvato – ricorda la dottoressa – fu il lavoro di squadra con i colleghi. Insieme ci vestivamo, facevamo le prove di ossigeno, i dosaggi degli antiinfiammatori e le prove degli steroidi a livelli diversi".