Su il volume, al Fabrique c’è la band (cult) dei Suede

Lo scioglimento del 2003, con conseguente riappacificazione del 2010, non ha fatto che rafforzare il gruppo britannico

Gli Suede si erano separati nel 2003 e sette anni dopo si sono riuniti

Gli Suede si erano separati nel 2003 e sette anni dopo si sono riuniti

Milano, 4 ottobre 2018 - Cult band. Con la maiuscola. Sono trent’anni che i Suede, in concerto questa sera al Fabrique, occupano un posto di riguardo nelle cose della musica. E lo scioglimento del 2003, con conseguente riappacificazione del 2010, non ha fatto che rafforzare la ditta. Anche se la magia prodotta agli esordi della (spigolosa) alchimia tra Brett Anderson, voce, e Bernard Butler, chitarra fino al ’94, non s’è più ripetuta, lasciando i primi album “Suede” e “Dog man star” due episodi inarrivabili capaci di convincere perfino il Melody Maker, vera e propria istituzione della musica d’oltre Manica, a riconoscergli il titolo di “miglior band emergente britannica”.

Molto convincenti pure le prove post-reunion, inferiori solo di una spanna (vedi “Night toughts” del 2016) a quanto messo in campo ai tempi di “The drowners” e “We are the pigs”. Il nuovissimo “The blue hour” mantiene fede ai buoni propositi con cui la band ha ripreso il cammino, con momenti importanti come “Beyond the outskirts” o il primo (coraggioso) singolo “The invisibles”. Monumentale “Flytipping”, che condensa per sei minuti abbondanti le tante anime della band con magniloquente slancio da gruppo prog. Ma cos’è “l’ora blu”? “È quella del crepuscolo, quando il rosso del tramonto lascia gradualmente spazio al buio della notte”, spiega il quintetto. “Abbiamo impiegato circa un anno per scriverlo. Una volta finito il lavoro, però, abbiamo trovato il tutto abbastanza divertente. D’altronde nessuno vuol ascoltare dagli Suede un album di ambient music. E questo non lo è”, spiega Anderson. “Come con ogni nostro album, l’unica cosa che conta è la scrittura e le canzoni accennano una narrazione ma non rivelano e non spiegano poi troppo”, dice Anderson. “Come disse una volta Francis Beacon, infatti, è compito dello spettatore approfondire il mistero; c’è una sorta di filo narrativo in fondo alla mia mente, ma se svelassi questo filo conduttore l’album diventerebbe un concept album perdendo un po’ del suo impressionismo. La maggior parte delle opere d’arte, non appena si fa troppo definita, inizia a spegnersi...».

 

 

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