Le risposte, se ci sono, vanno cercate oltre l'apparenza e la consistenza della materia. Questo è il significato che Lucio Fontana voleva imprimere ai “Tagli” che valsero tanta della sua fama. La verità sta dunque al di là di ciò che vediamo e tocchiamo con mano. E giustappunto dietro a quelle incisioni sulla tela, esaltate dai critici e incomprese o banalizzate dai profani, che andrebbe inseguita, secondo alcuni, la prova dell'autenticità di un taglio del pittore argentino (1899-1968), legatissimo a Varese e a Milano. Ne è persuaso anche un collezionista veneto che una decina di anni fa acquistò da un collega amico un paio di tele, convinto - oggi più di ieri- che appartenessero al ciclo fontaniano “Concetti spaziali/Attese”, quello dei celebri tagli. Parliamo di un migliaio di opere realizzate a cavallo degli anni ‘60, molte vendute e altre regalate.
I dipinti
Si tratta di un'idropittura con quattro tagli su fondo rosso, 65 x 46 cm datata 1964, e di una cementite con tela bianca “ferita” tre volte, 50 x 61 cm del 1960, entrambe accompagnate da certificati con firma di Piero Fedeli - gallerista vicino al pittore di Rosario e alla moglie - a comprovarne l'appartenenza all’archivio fotografico Lucio Fontana, quando ancora il “catalogo ragionato” e la Fondazione in suo nome non erano nati. E a quest'ultima nel 2017 si rivolse il collezionista per avviare l'iter dell'autentica ufficiale, consegnando per le analisi di rito i due dipinti, già promessi in vendita a una società monegasca per 2,9 milioni di euro. Non immaginava che sarebbe iniziata un'odissea giudiziaria conclusa lo scorso marzo.
Il sequestro
I quadri vennero infatti sequestrati dai carabinieri in seguito alla denuncia della Fondazione perché, ritenuti dalla stessa fasulli tanto quanto i certificati allegati e restituiti al proprietario, erano stati comunque ceduti alla società del Principato e fatti circolare. In aula, il reato ipotizzato a carico del collezionista era quello di contraffazione di opere d'arte in concorso col collega (entrambi rinviati a giudizio) , roba da finire in galera e rovinarsi per sempre la reputazione.
Il processo e l’assoluzione
Cinque anni: tanto è durato il processo, tra testimonianze, perizie e rinvii, con le opere sequestrate e sigillate in un magazzino. A epilogo della vicenda l'assoluzione degli imputati, invocata anche dal pm, perché il fatto non costituisce reato o, per dirla con il giudice, perché “deve ritenersi esclusa la prova della non autenticità delle opere in questione”. In altre parole, nel dibattimento non è stata dimostrata la falsità dei dipinti in esame. C'è di più. "Non è stato apposto alcun certificato (falso) della Fondazione (come indicato in imputazione)” da parte degli imputati la cui condotta “consiste nell’aver cercato di commerciare le due opere, nonostante la valutazione negativa ottenuta dalla Fondazione Fontana”.
Il "parere”
Nella sentenza vergata dal giudice Valerio Natale del Tribunale di Milano, inoltre, si ribadisce un concetto centrale nei dibattiti di settore in caso di dispute: per quanto autorevole e degna di attenzione, la valutazione della Fondazione sull'autenticità delle opere non ha "alcuna valenza certificatoria dal carattere assoluto” e va quindi considerata alle stregua di un parere o di un’illustre opinione. La matematica invece non lo è mai e un conto è vendere i due dipinti a 4 milioni di euro e un altro a meno della metà di quel valore. Perché questa, secondo una stima, è la potenziale differenza di prezzo determinata dalla menzione o meno nel catalogo ufficiale.
L’ordine di dissequestro
Dunque, il dissequestro e la restituzione dei due dipinti, imposti dal giudice, non hanno chiuso definitivamente il caso, perché negli scorsi mesi è stato avviato un nuovo iter presso la Fondazione Fontana per l'autenticazione. Un corposo dossier che, oltre a ribadire l’esito della causa penale, si avvalora di raffronti con altri Tagli del catalogo ragionato di Fontana e di consulenze di noti professionisti effettuate anche sulle firma e sulle tracce, risultate autografe, poste sul retro delle tele, dove per qualcuno andrebbe ricercata la verità.
Il nuovo “no”
Nonostante la sentenza e le nuove analisi presentate, non è cambiato l'orientamento della Fondazione Fontana che ha ribadito il “rifiuto” all’archiviazione già espresso nella prima istanza del 2017. Il motivo? “Modalità tecnico-esecutive non fontaniane; ancoraggio della tela con errata piegatura agli angoli e assenza di graffe metalliche, mai rilevati negli originali; riferimenti archivistici contenuti nell’autentica Fedeli, per lo meno di dubbia genuinità, riguardano un’opera diversa da quella esaminata”, si legge nel documento della commissione. E nel caso della cementite, “stesura del tutto anomala del colore bianco e delle colature al retro, non corrispondente al colore del fronte”.
Il dibattito aperto
Cosa succederà ora? La partita è chiusa? Di certo non lo è il confronto nell’ambiente artistico dove spesso entrano in contrasto gli approcci e gli interessi dei differenti “players”- fondazioni, enti, collezionisti, mercanti - e dove il rischio di truffe e falsi è sempre incombente. Infine un’ultima domanda: nell’era dell’intelligenza artificiale, è possibile che la profondità dei rilievi consentiti dagli sviluppi tecnologici non permetta di uscire dal perimetro soggettivo dei “pareri” ed entrare in quello oggettivo delle prove scientifiche?