Pinelli, il grido della figlia: meno riti emotivi, più verità

CInquant’anni dopo il tragico volo dell’anarchico dalla Questura di Milano Claudia e i ricordi di piazza Fontana: in questo Stato c’è ancora chi depista

Claudia e Silvia Pinelli

Claudia e Silvia Pinelli

Milano, 13 novembre 2019 - «Cosa ci aspettiamo io, mia sorella Silvia e mia madre Licia a cinquant’anni dalla morte di mio padre Pino Pinelli, il 15 dicembre? Meno riti emotivi, una riflessione più profonda sui quei fatti, più verità. Il riconoscimento delle responsabilità da parte di uno Stato che ebbe un ruolo attivo in quello che avvenne». Claudia Pinelli aveva otto anni quando la sua vita cambiò improvvisamente. Figlia amatissima, come Silvia, di Giuseppe, detto Pino, ferroviere anarchico, entrato vivo nella questura di Milano dopo l’esplosione di una bomba in piazza Fontana il 12 dicembre nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, e uscito morto dopo ore di interrogatorio e un volo dalla finestra del quarto piano. Per l’esplosione morirono 17 persone e 88 rimasero ferite. 

Cosa ricorda di suo padre? C’è un attimo di silenzio... «Pino era la parte gioiosa». 

Non lo chiama papà.. «Non posso altrimenti dovremmo interrompere questa intervista. Un distacco necessario».

Va bene. «Pino era affettuosissimo con noi bambine e sempre partecipe della vita della famiglia, in casa non c’erano divisioni di ruoli. Amava leggerci i fumetti di Topolino, con una lettura animata. Sapesse quanti versi ci faceva!...gasp!, gulp! Disegnava, conservo ancora qualche suo disegno. Ascoltava la musica. Era impegnato in politica, nel sindacato, le sue ultime battaglie riguardarono temi importanti come l’inquinamento da amianto e silicosi nelle fabbriche. Ma non voglio che venga ricordato come un santo, o come un martire. Suo malgrado è diventato un simbolo della violenza e dei diritti negati. Giuseppe Pinelli ha avuto una vita intensa, fatta di affetti, amicizia, cultura, impegno e valori. Una vita finita troppo presto, a 41 anni. Staffetta partigiana, autodidatta negli studi. Era un anarchico che aveva letto tutto sull’anarchia divorando i testi di Bakunin e Malatesta. L’ultimo libro che aveva sul comodino, quel giorno di 50 anni fa, era di Gandhi... rifiutava ogni forma di autoritarismo, studiava l’esperanto, anzi è così che ha conosciuto la mamma... Licia». 

Quanto è stato difficile portare avanti la battaglia in suo nome?  «Se non ci fossero stati giornalisti, avvocati e magistrati coraggiosi non saremmo qui a parlare. Un pezzo di società civile che si è resa conto, allora, di vivere in una democrazia imperfetta».

E pensa che lo sia ancora, imperfetta? «Sì. C’è chi copre e depista. Ma in una democrazia matura lo Stato quando sbaglia dovrebbe riconoscere i suoi errori, ne uscirebbe rafforzato non indebolito. E invece tutto ricade sulle famiglie». 

Stanno uscendo tanti libri su piazza Fontana. Un bel segnale. «Vorrei che si sottolineasse che ieri, come oggi, sono ancora i giornalisti a tenere alta l’attenzione, a cercare ulteriori dettagli fra gli archivi, grazie alle desecretazione delle carte. Si sono moltiplicati negli ultimi anni gli inviti a portare la nostra testimonianza nelle scuole, e le richieste arrivano da ogni parte d’Italia. Anche grazie alle parole chiare pronunciate su mio padre - riconosciuto vittima innocente - dall’allora presidente della Repubblica Napolitano che invitò la mia famiglia al Quirinale in occasione dei 40 anni della strage».

Ai suoi figli ha raccontato di questo nonno speciale? «Quando mia figlia che aveva 4 anni vide una litografia dell’opera di Baj “I funerali dell’anarchico Pinelli“ mi chiese: “perché quell’uomo cade e le mani non lo trattengono?“ ho cominciato a parlare, parlare, parlare. L’arte ha il potere di rompere schemi, abbattere muri. Anche quello dei silenzi più ostinati».  

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