Piazza Fontana, la bomba: sfregio alla democrazia

Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969. Un lampo squarcia la nebbia, le speranze e le vite di una città che credeva nel suo avvenire

Strage di piazza Fontana

Strage di piazza Fontana

Milano, 12 dicembre 2019 - Un lampo, un boato, vetri che si frantumano in migliaia di schegge micidiali. E poi l’onda d’urto dell’esplosione che travolge uomini e cose, riduce tutto in pezzi, mentre si diffonde dappertutto un odore di mandorle amare e poi il tanfo della morte. Vicino al cratere aperto dalla bomba sul pavimento, là dove fino a un minuto prima c’era il grande tavolo ottagonale, ora rimane una sedia miracolosamente intatta. Per il resto, dappertutto sangue, cadaveri e le povere cose che quegli uomini avevano addosso - scarpe, cappelli, quel che resta dei vestiti - sparse qua e là senza logica. 

Dodici dicembre 1969, mezzo secolo fa proprio oggi, salone centrale della la Banca nazionale dell’Agricoltura, ore 16.37. La tragedia si è appena compiuta in piazza Fontana. È un venerdì pomeriggio, c’è un po’ di nebbia, è quasi Natale . Pochi minuti prima, un uomo con una borsa di pelle marrone è entrato in banca e si è infilato nel grande atrio. Sono già passate le quattro ma lì dentro è ancora pieno di gente. Lo sanno tutti che quella è l’unica banca che non chiude, il venerdì pomeriggio, perché ospita una specie di mercato settimanale che pullula di presenze contadine e risuona di voci che parlano di polli e di maiali, di cavoli e di verze, che contrattano partite di ortaggi, firmano cambiali, si scambiano prezzi e informazioni. È tutta gente che viene dalla provincia, quella. Contadini, allevatori, mediatori agricoli o immobiliari, piccoli risparmiatori di campagna. 

L’uomo con la borsa di pelle si confonde nel via vai disordinato di quella specie di fiera paesana. Ci saranno almeno un centinaio di persone. Il terrorista assassino che lascia la bomba sotto il tavolo le guarda in faccia e sa che di lì a poco molte di loro non esisteranno più. Poi se ne va di fretta per non correre il rischio di finire a brandelli come le sue vittime. Il più giovane tra quelli che perderanno subito la vita si chiama Giovanni Arnoldi, ha 42 anni, è di Magherno, paese della Bassa pavese, sposato, due figli, allevatore di bestiame ma anche gestore del Cinema Nuovo. C’è Oreste Sangalli, commerciante, 49 anni, di Ronchetto sul Naviglio: quando la radio diffonde la notizia della bomba, la moglie chiama i giornali disperata. Saprà dal parroco del paese che Oreste non c’è più. Pietro Dendena di Lodi, 45 anni, mediatore di bestiame e di terre, arriva in banca giusto alle quattro e mezzo, quasi di corsa per non perdere l’appuntamento con la morte. Gerolamo Papetti, 79 anni è il più anziano. E poi Giulio China, Eugenio Corsini, Carlo Gaiani, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Carlo Silva, Attilio Valè. Dopo una breve agonia muoiono in ospedale Calogero Galatioto e Angelo Scaglia. Anni dopo, ma sempre per le conseguenze dell’esplosione, se ne andrà Vittorio Mocchi.

In piazza Fontana si è radunata ormai una folla; poco distante, all’Università Statale, un convegno del Movimento studentesco che avrebbe dovuto occuparsi della guerra in Vietnam si trasforma in un’accesa discussione sulle bombe. Nelle sezioni del Pci la tensione è altissima: tra i dirigenti romani c’è anche chi teme davvero un colpo di Stato, in quelle ore. Anche in via Nirone, nella sede della Dc, è tutto un incessante succedersi di telefonate tra Milano e Roma. È circa l’una di notte quando a Palazzo Marino, la Giunta guidata dal sindaco Aldo Aniasi approva un ordine del giorno di dura condanna dell’attentato, che però non tutti i capigruppo del consiglio hanno voluto sottoscrivere. È lutto cittadino, il sindaco fa sospendere gli spettacoli teatrali, ordina le bandiere abbrunate fuori dagli uffici pubblici e la disattivazione delle luminarie natalizie. Anche i cinema del centro chiudono a partire dal penultimo spettacolo serale e molti negozi già a metà pomeriggio abbassano le serrande. L’Italia intera si ritrova attonita. Il giorno dopo è sabato, ma la Rai decide di fermare in segno di lutto gli spettacoli di varietà e di non mandare in onda nemmeno una trasmissione popolarissima come Canzonissima. Fra l’altro, nemmeno a farlo apposta, Massimo Ranieri quella sera avrebbe dovuto cantare Se bruciasse la città.  (10- fine)

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