Il maestro delle luci illumina Banksy, Klee e sogna L'ultima cena

Con un faretto ha svelato il “segreto” di Caravaggio, ha appena illuminato le mostre di Steve McCurry e Banksy e creato la giusta luce per Tiziano, Picasso, Warhol, Pollock, Klee

Francesco Murano

Francesco Murano

Milano, 25 dicembre 2018 - Con un faretto ha svelato il “segreto” di Caravaggio, ha appena illuminato le mostre di Steve McCurry e Banksy e creato la giusta luce per Tiziano, Picasso, Warhol, Pollock, Klee. Ventisette le mostre “accese” nell’ultimo anno. Francesco Murano, architetto e professore del Politecnico di Milano, è esperto di illuminotecnica e luministica, l’arte della luce. E attorno all’arte ha sviluppato la sua professione.

Prima mostra?

«Hopper, a Roma, anche se sono già 35 anni che mi occupo di luce e grazie alla passione per la fotografia ho avuto la fortuna di conoscerla da adolescente. Dopo il master sulle luci alla Domus Academy ho iniziato a progettare apparecchi di illuminazione decorativi. Da Hopper è cominciata la specializzazione nelle mostre d’arte».

Ogni mostra ha bisogno di un’illuminazione ad hoc. Qual è lo studio a monte?

«L’illuminazione di capolavori del passato, sino agli inizi del ’900, richiede un approccio diverso rispetto ai contemporanei: con tonalità più calde, si tende a stare sul dipinto per avere una visione più intima. Le opere contemporanee hanno voglia di essere viste en plein air, a tutta luce, si tende a illuminare in modo uniforme l’ambiente per poi evidenziare con un’altra luce l’opera stessa. Bisogna conoscere l’autore: ogni illuminazione è un’interpretazione, ci si confronta col curatore».

Quali gli errori più comuni?

«Abbagliamenti, riflessi, ombre sulle opere, macchie di luce, ovvero luci sbagliate che creano aloni, cerchi piuttosto che ellissi sulla parete e che distraggono la visione dell’opera. Il vero problema è come la luce sfuma nella parete, si deve vedere il meno possibile a meno che non lo si voglia. Per esempio a Bologna per illuminare la street art abbiamo creato volutamente aloni, l’ho chiamata “Spray light” per riprendere l’idea della bomboletta».

Le scelte per Banksy?

«Con il curatore Gianni Mercurio abbiamo deciso di illuminare tutta la parete grigia con un focus sulle opere. Sulla parete ci sono linee gialle, che riprendevano lo strappo, le abbiamo illuminate con strisce led e abbiamo voluto ricreare un ambiente urbano. Su alcune opere non si potevano superare i valori di lux, perché molte sono su carta: la luce che colpisce l’acquarello non può avere la stessa potenza di una luce che colpisce una tempera su tela, i pigmenti sono più delicati e il supporto cartaceo tende a rovinarsi con la luce».

Il lavoro di cui va più orgoglioso o che ha lasciato il segno?

«“Gli occhi di Caravaggio”: per illuminare un suo grande dipinto è bastato un solo faretto e il quadro è esploso di luce. Ho capito la grandezza di Caravaggio, che non è solo quella delle luci e delle ombre, come si dice solitamente; secondo me è qualcosa nel pigmento che funziona da illuminatore, da sorgente secondaria. Era accanto a un’opera del Campi della stessa dimensione per la quale sono state necessarie quattro luci. Quando si illumina un capolavoro è sempre un’emozione perché in qualche modo lo si possiede, lo si svela, si ha l’idea di contribuire alla bellezza. Anche con Keith Haring è stato meraviglioso: ho potuto vedere tutto il suo lavoro di ricerca».

Il sogno nel cassetto?

«Illuminare “L’ultima cena” di Leonardo. Ho già illuminato i disegni preparatori sempre al Cenacolo, ma mi piacerebbe illuminarla in modo diverso da com’è adesso. Un sogno che coronerebbe la mia professione».

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