NICOLA PALMA
Cronaca

"L’ebreo perseguitato era italiano": sì al vitalizio per la moglie 92enne

Via libera della Corte dei Conti dopo il "no" del Ministero delle Finanze

Leggi razziali in una foto di repertorio

Milano, 15 dicembre 2016 - Cittadino libico a sua insaputa, verrebbe da dire se non ci fosse di mezzo una storia di odiosa discriminazione razziale risalente all’epoca del Ventennio. Un groviglio di burocrazia miope e carte bollate sul quale ha scritto la parola «fine» la Corte dei Conti dopo più di tre anni di battaglia legale. Tutto nasce il 22 marzo del 2013, quando la signora W.A., all’epoca 89enne, presenta alla Commissione per le provvidenze ai perseguitati politici antifascisti e razziali e loro familiari superstiti la domanda per ottenere il vitalizio di benemerenza (previsto dalla legge 932 del 1980) in quanto vedova del perseguitato Mino Moisè Barki, nato il 21 luglio 1911 a Tripoli e deceduto a Milano il 4 ottobre 1986.

Per ottenere quell’assegno servono due requisiti. Il primo: essere cittadino italiano. E Mino Moisè lo è (nato nell’allora colonia Tripolitania da padre italiano), come dimostrato dal certificato di matrimonio inoltrato dal Consolato italiano in Libia e dal libretto di famiglia. Il secondo: aver subìto una persecuzione. E Mino Moisè l’ha subita eccome, visto che nel 1938 fu costretto ad abbandonare il Regio Istituto di Studi Commerciali a Torino a seguito della pubblicazione delle leggi razziali pur avendo già superato 29 esami nel periodo 1931-1935. Tutto finito? No, perché prima la Commissione presso la Presidenza del Consiglio e poi il Ministero delle Finanze negano il placet alla vedova, sostenendo che in realtà Barki non è mai stato cittadino italiano, bensì libico.

Lo prova, sostengono a Roma, un certificato redatto dal Comune di Tripoli nel 1968, inoltrato nel dicembre del 2013 dal Consolato di Tripoli al Comune di Milano, in cui si dichiara che Mino Moisè era libico quando si sposò nel 1945. Impossibile, replica l’avvocato Giovanna Creti, che assiste la signora W.A., visto che la Libia è tale come Nazione solo dal 1951 (la dichiarazione di indipendenza è datata 24 dicembre): «Un certificato con riferimento a un matrimonio celebrato nell’anno 1945 non può riportare lo status civitatis libico all’epoca non esistente». Nel frattempo, però, pure all’Anagrafe di via Larga è stata fatta la correzione, come scritto in una lettera inviata il 16 dicembre 2013 dal Settore servizi demografici dell’amministrazione alla figlia di Barki: «In data 12 dicembre 2013, il Consolato Generale d’Italia in Tripoli, nel riscontrare la richiesta di chiarimenti sullo status civitatis del signor Mino Moisè Barki, confermava la cittadinanza libica del nominato e l’erroneità della dicitura cittadino italiano indicata nel certificato di matrimonio».

Sembra finita, ma la famiglia Barki non si arrende. Prima il ricorso al Tribunale Civile per ristabilire la verità, documenti alla mano: il 27 gennaio 2016, la Nona Sezione dispone «che l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Milano proceda alla rettificazione dei certificati». Poi la causa alla Corte dei Conti per cancellare il «no» del Ministero. E il 1° dicembre i giudici contabili hanno accolto in pieno le ragioni della signora W.A., che di anni ormai ne ha 92: ha diritto al vitalizio come moglie di un ebreo italiano perseguitato per motivi razziali. Spese di lite (1.500 euro) a carico del Ministero delle Finanze, che pare non sia nuovo a battaglie legali (spesso ingiustificate) contro le famiglie di perseguitati ed ex internati nei campi di concentramento.