ANDREA DE GIORGIO
Cronaca

Covid, la lettera di un professore: "Mio papà morto dopo 43 giorni di ospedale"

Il virus ha amplificato la mancanza di empatia negli ospedali ma la deontologia insegna che la relazione è parte della cura

Andrea De Giorgio con il papà Rosario, deceduto in ospedale

Milano, 12 febbraio 2021 - Quarantatré giorni. Milletrentadue ore. Immaginate di passare questo tempo su un letto di ospedale, in una stanza da soli, senza libri, cellulare, televisione, radio. È questo ciò che è accaduto a mio padre, Rosario, ricoverato a Cuggiono (in provincia di Milano), dopo alcuni giorni al pronto soccorso di Legnano (sempre in provincia di Milano), per problemi cardiaci. Papà non ce l’ha fatta, ma da discutere è il trattamento umano riservato a lui e a noi come parenti.  Gli operatori sanitari già prima della pandemia hanno rilevato difficoltà organizzative e psicologiche di ogni tipo. Negli ultimi cinque anni ho fatto formazione in una grande ASL del nord Italia e ho ben chiaro il loro vissuto. Tuttavia si sta amplificando durante la pandemia la perdita di contatto con l’umano, osservando il malato attraverso la malattia e non per quello che è: una persona umana. Il Covid-19 sta strappando all’affetto dei propri cari migliaia di Rosario in tutto il Paese senza che possano giovare del sostegno dei propri famigliari. L’umanizzazione, ora più che mai, è un imperativo. E perseguirla significa migliorare innanzitutto proprio il clima lavorativo oltre che il decorso della malattia. C’è purtroppo tanto da fare e desidero raccontarvi due aneddoti nei quali molti, sono certo, si riconosceranno. 

A metà dicembre, dopo diverse ore al pronto soccorso di Legnano, ho provato a mettermi in contatto con il medico che aveva in carico mio papà: «Ora non abbiamo tempo, la richiamiamo noi». Un tono brusco. Seccato. Dopo questa frase il medico ha pensato di chiudere la comunicazione, ma la cornetta ha restituito un raggelante commento proferito a qualcuno nel pronto soccorso: «Era il figlio di De Giorgio, l’ho mandato per le terre». Io spero davvero che mio padre non l’abbia sentito. La segnalazione all’Ufficio relazioni con il pubblico si è infranta contro un muro di omertà: frase né sentita né pronunciata da alcuno. Ecco, sappia questo medico che quella frase “rubata” lascerà feriti il mio cuore e la mia mente per tutta la vita. Provo grande, profonda, umana compassione per lei, e per questo le do un consiglio: sia meno pavido, le persone, glielo assicuro, hanno stima per i coraggiosi. Infatti, se si perde l’onore si può recuperare, se si perde il coraggio si perde tutto. 

Tuttavia questo episodio ha ricadute ben più profonde di quelle personali. Il medico che mi è stato passato, infatti, pare non stesse neppure seguendo papà in quel momento. Allora mi chiedo: l’ospedale di Legnano si avvale nel pronto soccorso di operatori che non sanno neppure passare al telefono la persona corretta? E ancora più grave è l’aspetto legato alla privacy: sarei potuto rimanere al telefono ad ascoltare le conversazioni degli operatori, cognomi di persone assistite, farmaci, posologie, commenti di ogni tipo. Quanti “L’ho mandato per le terre“ avrei sentito? Del resto, il clima che ho percepito in quegli istanti non era assolutamente di un’emergenza in corso. Può una Azienda Socio Sanitaria Territoriale (ASST) grande qual è l’Ovest Milanese permettere che propri operatori compiano simili leggerezze? 

Secondo aneddoto. Papà in tutta la sua vita ha fatto la barba a giorni alterni. È morto all’ospedale di Cuggiono con la barba di quarantatré giorni, milletrentadue ore. Ricordo l’ultima videochiamata, solo due in tutto il periodo di degenza: non riusciva più a parlare e trafiggeva i miei occhi spaesato, triste, implorante, grattandosi continuamente la lunga barba. Non è questo un elemento secondario circa l’umanizzazione, perché la dignità della persona passa attraverso la cura dell’igiene personale. In aggiunta c’è un altro doloroso aspetto: la rasatura è un preciso dovere del personale sanitario. Potrei raccontare altri, tanti, aneddoti accaduti in questi quarantatré giorni, milletrentadue ore, come il fatto che papà non ha potuto sentire una voce amica per dieci giorni, duecentoquaranta ore, da quando l’ho salutato in ambulanza.

Quanto ancora c’è da fare per l’umanizzazione delle cure. Eppure il codice deontologico degli infermieri all’articolo 4 chiude con una bellissima frase: «Il tempo di relazione è tempo di cura». Se già prima della pandemia non sono riuscito a vedere personale sanitario colloquiare con le persone assistite nelle corsie degli ospedali, ora, col Covid-19, la situazione è addirittura peggiorata e quel passo è più poesia che realtà. La critica che si leverà la conosco fin troppo bene: «Non abbiamo tempo!». In verità il tempo c’è, è la sua qualità che spesso è scadente. Nonostante tutto non dimentico i tanti operatori sanitari che hanno un approccio umano straordinario e so per esperienza che essi trovano fortissime ostilità da parte dei colleghi. A loro dico: resistete! Perché in un mondo dove si può scegliere di essere qualsiasi cosa, voi avete scelto di essere gentili. Chiunque voglia raccontare la sua storia sappia che le sto raccogliendo per poter dar voce a tutti; potete scrivermi a: storiedisanita@gmail.com. Ciao, papà Rosario. Che la terra ti sia lieve, fa’ buon viaggio nella luce.

Andrea De Giorgio è Professore associato  di Psicologia  delle emozioni