SIMONA BALLATORE
Cronaca

Il Collegio, il suo preside Paolo Bosisio e il Berchet: “Ho avuto più di 15mila studenti, a teatro ho preso molte porte in faccia”

I ricordi dell’attore, regista e prof, premiato dal liceo dove tutto ebbe inizio. "Con don Giussani facevo il comunista e con il prof Daziano il cattolico. Il mio teatro è nato qui"

Il liceale Paolo Bosisio con i suoi compagni di classe del Berchet: è il secondo da destra in ultima fila Sotto in una puntata del docu-reality “Il Collegio“ su Rai2 e a teatro, la sua vera casa: creò il suo primo spettacolo a 9 anni

Il liceale Paolo Bosisio con i suoi compagni di classe del Berchet: è il secondo da destra in ultima fila Sotto in una puntata del docu-reality “Il Collegio“ su Rai2 e a teatro, la sua vera casa: creò il suo primo spettacolo a 9 anni

Per ritirare il Premio Berchet Paolo Bosisio ha preso un volo dalla Thailandia, dove ora vive. "Sono commosso", confessa l’ex liceale, attore, regista, professore universitario nonché “preside” nel docu-reality Il Collegio su Rai2.

Ripartiamo dal Berchet.

"Dopo le medie alla Maino e un anno di collegio a Torino per un ’capriccio’ di mio papà, in quarta ginnasio mia mamma è riuscita a farmi rimettere in classe al Berchet con i mie amici. Ho studiato su programmi antichi fino alla maturità vecchio stile: cinque scritti e nove orali".

Com’era l’alunno Bosisio?

"Dato storico: su due classi, circa 65 persone, a luglio siamo stati promossi in 16. Tutti gli altri bocciati o rimandati a settembre. Ho adorato il liceo classico, anche se purtroppo la matematica, di riffa o di raffa, te la rifilano. Ma non sono mai stato rimandato, ho pure preso sette alla maturità, non meritato".

E i suoi insegnanti?

"Bravissimi. Per dare l’idea avevo tra i professori Don Giussani, il fondatore di CL, e Daziano, comunista. Diversissimi di carattere, cercavano di spingere il carro ideologico dalla loro parte. E il mio divertimento maggiore era fare il comunista con Don Giussani e il cattolico con Daziano, che poi è diventato mio collega alla Statale. Ho solo bei ricordi: tantissimo studio, ma anche tanto divertimento".

La sua carriera teatrale cominciò tra quelle aule?

"Primo spettacolo a 9 anni, in campagna facevo i burattini e andavo alla Scala con mia nonna. Al liceo sono entrato nella compagnia dilettantistica del Berchet come attore. Avevo un carattere un po’ dominante, non mi bastava. Sono riuscito a fare arrabbiare così tanto il regista che è andato via e ho preso in mano la compagnia. E con una sfacciataggine degna di miglior causa ho cominciato a bussare alle porte dei teatri milanesi: “Possiamo farvi vedere una prova?“ Bam, porte in faccia".

La svolta?

"Al teatro San Babila, aperto da un anno: c’era un direttore anziano, mi ha dato due serate in maggio con L’importanza di chiamarsi Ernesto . L’anno dopo ho portato uno spettacolo più impegnativo, Le Diavolerie di Fersen. Durante le prove è passato il regista Fantasio Piccoli: “Vuoi diventare mio assistente?“ Sono entrato al San Babila come assistente e attore, mi davano 90mila lire. Ma in fondo è nato tutto lì, nel mio liceo, con un preside anziano e un bidello simpaticissimo che ci vendeva il panino con la mortadella".

Poi venne la Statale .

"Lettere era il mio destino. Anche se all’inizio ero indeciso: avevo una mamma medico, pilota e letterata, e volevo fare il chirurgo. Lei mi disse: “Per carità che di morti ce ne son già troppi. Occupati di teatro".

Quanti studenti ha avuto?

"Alle medie un’unica supplenza; al liceo ho insegnato tre anni, alla Statale sono stato di ruolo dal 1980 al 2011, più altri sei di contratti a termine. Conto 15mila allievi e mille laureati".

Quando ha detto stop?

"Ho sempre avuto un rapporto intenso con la classe. Ero un professore serio ma istrionico: gli ultimi due anni ho notato un raffreddamento, succedevano cose mai capitate, uno che leggeva il giornale in aula, un altro che non si toglieva il cappello. Mi mancavano otto anni, stava maturando il teatro d’opera, si poteva andar via prima. Togliendo questa parentesi, sono stati 30 anni meravigliosi".

Torna al Berchet da preside del “Collegio“.

"Questa serie televisiva mi ha regalato una notorietà incredibile, che non ho ottenuto facendo una miriade di cose. Oggi ho 241mila follower su Instagram, Ma c’è un difettuccio: ha un po’ travisato la mia immagine, mi fermano in strada, nei ristoranti. Una volta chiedevano autografi, ora selfie. E mi arrivano le chiamate: “Potresti fare un filmino per il nipotino?“. Non è sgradevole, ma ha un po’ cambiato la mia vita e vengo interpellato come preside vero. Per dir la verità per una decina d’anni l’ho fatto in un liceo linguistico e in un turistico perché avevo due figli, si guadagnava di più. E mi è piaciuto. Sono stato un preside vecchio maniera, come in tivù".

Com’è cambiata la scuola?

"Oggi il preside si chiama dirigente scolastico, che è già triste. Un tempo era un educatore prima che un burocrate. Oggi ha due-tre plessi - altre parole orripilanti - e corre senza trovare tempo di occuparsi di studenti, didattica, dell’aspetto umano. Timbri, litigi con i genitori che insultano i professori perché i figli hanno preso brutti voti... insomma i tempi sono cambiati. Quando frequentavo le elementari Corridoni la direttrice era Maria Saturno. In terza mi disse: “Sai che hai una bella voce? Vieni in direzione“. C’era la radio, mi chiese di leggere poesie, le chiesi di fare uno spettacolo. Queste cose non succedono più, ma le ricordo con piacere. Non con nostalgia".

Per questo torna a Milano?

"Ho preso un volo apposta. Sono emozionato: mi è capitato in questi anni di ricevere riconoscimenti importanti, due lauree honoris causa in musica e in arte, tutte all’estero. Qui ho preso la santa e sudata laurea. Ma il premio Berchet è legato a un periodo particolare della vita, alla mia scuola. Mi sento un po’ come quando la direttrice Saturno, in quinta, mi diede uno stemmino d’oro con l’obelisco di piazza Cinque Giornate definendomi il bambino dalla testa vulcano. Ecco, sono commosso".