Milano – Più di 120mila euro alla madre. 50mila ai due fratelli più piccoli, 43mila agli altri cinque di età compresa tra 31 e 40 anni e 41mila al maggiore. Il totale sfiora i 480mila euro.
È il maxi risarcimento che i giudici della Corte d’appello del Tribunale civile di Milano hanno riconosciuto alla famiglia di Jaafar Bassiri, morto nell’incidente avvenuto la notte del 24 agosto 2013 sulla via Emilia. La Lancia Ypsilon, intestata a L.S. ma guidata dal figlio Simone A., travolse la mountain bike del trentenne marocchino al chilometro 312, a Vizzolo Predabissi; dopo l’impatto, il conducente scappò. Bassiri rimase a terra, privo di sensi: i soccorritori lo trasportarono d’urgenza al Policlinico, dove ne fu dichiarato il decesso un’ora dopo. Nei giorni successivi, le indagini dei carabinieri portarono prima a individuare la macchina e poi il presunto conducente, che nel frattempo, con la complicità del padre, aveva finto che qualcuno avesse rubato la macchina.
Simone A. è stato assolto dal Tribunale penale di Lodi per il reato di omicidio colposo (“non è stato provato oltre ogni ragionevole dubbio che abbia, con la propria condotta di guida, causato l’incidente stradale”), ma condannato a due anni per omissione di soccorso. Poi la madre di Bassiri, assistita dagli avvocati Nicola Brigida e Sandro Grossi, e i fratelli, rappresentati dal legale Erdis Doraci, si sono rivolti al Tribunale civile per chiedere il risarcimento dei danni generati dalla perdita di figlio e fratello.
La perizia del consulente tecnico ha riscritto la dinamica dello scontro: non fu un tamponamento, ma uno scontro tra veicoli che viaggiavano in direzioni opposte, in particolare di “una collisione tra il fianco destro della bici e la parte anteriore destra dell’auto. Segno che “Bassiri non percorreva la SS9 nella stessa direzione di marcia della Ypsilon condotta da Simone A., ma, con provenienza dall’opposto senso di marcia, attraversava la via Emilia diagonalmente verso la propria sinistra, finendo così per intercettare la traiettoria del veicolo con il quale entrava in collisione e dal quale veniva disarcionato e caricato sul cofano”. Pur tenendo conto della nuova ricostruzione, il Tribunale di Lodi ha addebitato tutta la colpa al ciclista.
Una tesi ora sconfessata dai colleghi milanesi. Che, pur riconoscendo che la Lancia non ha superato i limiti di velocità, hanno sottolineato che “l’incidente risulta avvenuto in ora notturna e in assenza di illuminazione artificiale, dopo un violento temporale e in condizioni di fondo stradale bagnato, oltre che nei pressi della pensilina di una fermata dell’autobus e in corrispondenza dell’area di accesso” a una cascina. Conseguenza: “In tale situazione, vi era l’obbligo per l’automobilista di moderare particolarmente la propria velocità, proprio per adeguarla alle condizioni di tempo, di luogo e di pressoché totale mancanza di luce, così da poter mantenere il controllo del veicolo e da poterlo arrestare nel campo di visibilità (ridotto) in condizioni di sicurezza per il caso in cui si fossero verificati eventuali imprevisti, come di fatto accaduto”. Quindi, “l’aver mantenuto un comportamento in contrasto con l’articolo 141 del Codice della strada e con la prudenza resa specialmente necessaria dalla situazione e dalle condizioni del luogo teatro del sinistro espone A. ad addebito di responsabilità, acquisendo particolare rilievo anche il fatto che si sia dato alla fuga e, con la complicità del padre, abbia in seguito simulato il furto della propria autovettura”.
Conclusione: la colpa va equamente divisa tra l’automobilista e il ciclista. Da qui l’accoglimento della richiesta di risarcimento per un ammontare di 479.331 euro, che dovranno essere corrisposti in solido da A., dalla madre proprietaria della Lancia e dalla compagnia assicurativa.