La storia si è fermata al Camparino: un rito che "non segue le mode"

Da più di 100 anni per i milanesi è il vero aperitivo in Galleria di PAOLO GALLIANI

Sopra,  i mitici  tavolini affacciati sulla Galleria Vittorio Emanuele

Sopra, i mitici tavolini affacciati sulla Galleria Vittorio Emanuele

Milano, 22 aprile 2016 - La chiama la sua «medicina» e che non abbia nulla di terapeutico lo dicono gli ingredienti: bitter Campari, vermouth dry, vodka e un’aggiunta di Malvasia. Diavolo di un milanese con sangue romagnolo e pure piemontese nelle vene. Si schernisce Orlando Chiari e per avere 82 anni ci riesce benissimo, anche se i suoi baffi un po’ austroungarici appaiono meno esuberanti di un tempo. Neanche difficile. Al Camparino è come stare al parterre di una certa Milano e poi è noto: qui la Storia si è spesso fermata e si è pure accomodata. E allora diventa naturale chiedere proprio a lui, all’Orlando, di fare un viaggio nella memoria: le sue parole come i tasselli che compongono i preziosi mosaici di Angelo d’Andrea, i suoi aneddoti come gli intarsi di Eugenio Quadri, i suoi ricordi come i lampadari di Alessandro Mazzucotelli. E poi i cent’anni appena compiuti di questo “bar di passo” aperto da Davide Campari che nel 1915 aveva voluto regalare alla Galleria Vittorio Emanuele un secondo spazio di fronte al più blasonato caffè ristorante – il “Campari” – aperto da suo padre già mezzo secolo prima. Con un dettaglio non da poco: un locale stavolta più informale, forse meno adatto ai commendatori ma più apprezzato da intellettuali e giovani rampanti della borghesia meneghina.

FASCINO Sopra, i mitici tavolini affacciati sulla Galleria Vittorio Emanuele in una foto di inizio Novecento; a sinistra, il locale oggi con un cameriere che serve il mitico Campari (Fotogramma e Newpress)IN PRIMA LINEA Orlando Chiari, 82 anni, davanti al suo locale in Galleria (Newpress)«Certo che lo apprezzarono!», commenta Orlando. E il “Camparino” divenne subito l’emblema di una nuova Milano, a dispetto delle 87 rotture di vetri censite in pochi anni di scorribande e dimostrazioni tra Duomo e Galleria prima del fascismo. Vittima del suo stesso successo? Probabile. Orlando sorride. Cerca di coinvolgere la moglie Teresa nella chiacchierata ma lei lo blocca sul nascere con un salomonico «a parlare sei più bravo tu» e lui lo prende come un complimento. Lo è. Perché in fondo, raccontare è come fare una passeggiata nel tempo e diamine, lui, di escursioni è un maestro, come rivela la passione per i sentieri della “Linea Cadorna” e la sua fatica editoriale – “Le mie montagne” – che è una piccola Bibbia del trekking. E allora, giusto guardare nel retrovisore, a cominciare dalla storia di Gaspare Campari, self made man di origini novaresi che nel 1867 apre un austero caffè-ristorante allo sbocco della Galleria verso piazza Duomo e inventa un “Bitter ad uso d’Olanda” che diventa un’icona tra i consumatori d’alcolici. Gli succede il figlio Davide che nel 1915 apre sul lato opposto del “grande Campari”, un locale Art Nouveau che vuole essere il suo fratellino minore e in effetti lo diventa, rivelandosi anche più longevo. Nome inevitabile, il “Camparino”, presto rimpiazzato con quello di “Zucca in Galleria” in omaggio al nuovo brand di prestigio che gestirà per lunghi decenni il bar di passo prima di cederlo a Guglielmo Miani, uomo del sud innamorato di Milano, proprietario dei negozi di tessuti Larus, deciso ad acquistare quel bistrot sotto l’arco del Mengoni e a «… restituirgli il prestigio di un tempo, perché non può diventare un bar qualsiasi o un fast food».FASCINO Sopra, i mitici tavolini affacciati sulla Galleria Vittorio Emanuele in una foto di inizio Novecento; a sinistra, il locale oggi con un cameriere che serve il mitico Campari (Fotogramma e Newpress)IN PRIMA LINEA Orlando Chiari, 82 anni, davanti al suo locale in Galleria (Newpress)

È lo stesso Orlando a celebrare il suocero e la sua verve imprenditoriale fino alla sua scomparsa nel dicembre ’87, ad accennare alla gestione della cognata Iris per una dozzina d’anni, a fissare nel ’90 l’apertura di un ristorante al piano superiore, quindi a ricordare l’atto finale nel ’99 con la moglie Teresa Miani che prende il comando del “Camparino” e il successivo ritorno del marchio Campari come grande sponsor. «Senza mai seguire le mode», aggiunge Orlando. È il classico che ritorna e per la verità non se n’è mai andato, come rivela il via vai dei camerieri tra banco e tavolini: Campari Soda o Bitter, Negroni o Americano, accompagnati rigorosamente da patatine, pizzette e olive di Cerignola. Giusto così: un buon aperitivo deve bastare a se stesso. Orlando Chiari alza le barricate: «L’Happy Hour? Un rito banalizzato. A Milano c’è chi lo propone in modo serio. Ma in molti bar l’offerta non è sempre di qualità». E sotto le volte rassicuranti del Camparino non riesci a dargli torto.

di PAOLO GALLIANI

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