
Un giovane Mario Capanna a Milano nel 1968
Milano, 18 gennaio 2018 - Un refolo del ’68 sfiorò anche il Liceo Internazionale di via Gherardini, dove insegnavo felice e malpagato trenta ore alla settimana. Appartati com’eravamo dal gran teatro della contestazione studentesca pensai che i ragazzi non potessero non vedere, non sapere, non partecipare. Così, mi feci complice, e un venticello di contestazione spirando su quella scuola per privilegiati e per periferici per un tratto incrinò gli anni beati e l’atmosfera satura di sicurezza, di benessere e di paternalismo.
Contestazione e occupazioni, rivolta e rivoluzione erano pane quotidiano dei licei e delle università milanesi. Io non ci credevo. Ero già formato politicamente. Anzi, ero già diventato, a ventiquattro anni, un personaggio del passato, cioè degli aborriti parlamentini universitari con le loro regole, le sigle delle varie associazioni e lo stile dei discorsi che mimavano il confronto dei partiti e agivano come succursali e succedanei delle federazioni giovanili. I sessantottini ci avevano spodestato, mettendo sotto accusa il nostro peccato originale: «Il distacco elitario dalle masse studentesche». Loro e le loro assemblee oceaniche e interminabili, le manifestazioni di massa, le parole d’ordine che inneggiavano alla lotta comune di studenti e operai, gli slogan ritmati - riflessi pavloviani di un marxismo elementare - erano il nuovo che avanzava. E per una stagione sembrarono incarnare il mainstream di una generazione.
Io non ci credevo, ma non volevo nemmeno che i miei studenti diciottenni si sentissero ai margini, esclusi da un’esperienza che coinvolgeva tanti loro coetanei solo perché io, il loro insegnante di italiano, storia e filosofia, non ero d’accordo. Né volevo raccontargliela a modo mio: volevo vedessero con i loro occhi. Così un mattino li condussi in passeggiata dal Sempione alla Statale per fargli vivere la contestazione in presa diretta, dentro le aule occupate, dentro le mitiche assemblee del movimento. Erano le stesse aule e talvolta le abitavano gli stessi studenti - contestatori ormai professionali – che mi avevano appena fischiato e urlato il loro ribrezzo: «Riformista servo dei padroni» e, peggio del peggio, «Traditore socialdemocratico». Guardavo al movimento con sentimenti ambivalenti. Mi piacevano l’antiautoritarismo, la sfida ai divieti, ai tabù, all’accademismo e al nozionismo in nome della partecipazione alla storia collettiva e per conto di una presa di coscienza della realtà in cui eravamo tutti immersi ma che ai più restava del tutto estranea.
Ma detestavo il manicheismo, l’ignoranza e la superficialità del militantismo duro e puro, gli slogan al posto dei concetti, la propaganda al posto delle analisi. Loro salmodiavano «Marx, Lenin, Stalin, Mao Tze tung», noi parlavamo di democrazia e di riforme. Reclamavano per sé un futuro e la rivoluzione e io li provocavo: «Durerete meno della riga dei miei pantaloni». Volevano liberare i giovani borghesi dai pregiudizi borghesi, far volare in alto le loro anime, ma intanto li zavorravano con i pregiudizi pauperisti, le menzogne e le illusioni comuniste. Volevano abbattere il sistema, le sue ingiustizie, le sue grettezze ma non liberavano le menti, le imprigionavano in un sistema ancora più chiuso, dogmatico, opprimente. La violenza era già in embrione nella tirannia delle assemblee. Un confuso vociare, interrompersi, sovrapporsi di attacchi personali e ingiurie infantili tutto il contrario di una discussione, di un confronto utile e civile. Volevano essere liberi ma si arrendevano all’urlatore più lesto e spregiudicato. Unico metro di misura, unico carisma riconosciuto l’intransigenza verbale.
I leader del movimento si chiamavano Spada, Capanna e Pero, e siccome venivano dalla Cattolica, per scherno noi li ribattezzammo Spero, Promitto e Iuro. Parlavano una neo lingua spiccia e legnosa, mescolando frasi di Marcuse e di Marx, del Che e del pot pourri extraparlamentare. Eppure l’aria foresta un po’ da guerriglieri un po’ da seminaristi piaceva e alla fine, anche grazie a loro, nel vissuto di tanti figli della borghesia milanese penetrò qualcosa di diverso dall’idea che le uniche cose importanti fossero «macchina, mestiere, moglie».
(1 - continua)