ELVIO GIUDICI
Editoriale e Commento
Editoriale

Una pagina d’oro nella storia scaligera

Gli applausi finali al termine della Prima

Gli applausi finali al termine della Prima

Ragione prima del fatto che questa Forza del Destino resterà quale pagina d’oro nella storia scaligera, è la direzione di Riccardo Chailly. Quella frammentarietà che la critica musicologica non s’è mai stancata d’indicare quale zeppa dell’opera, è invece un potente valore drammaturgico: e l’orchestra l’ha dimostrato perentoriamente col rendere i molteplici punti di vista da cui Verdi indirizza il percorso narrativo altrettanti quadri che nello scorrere uno accanto all’altro - non uno dentro l’altro come di solito costuma - fanno comprendere come l’opera vada intesa in guisa di quel romanzo popolare che l’Italia non aveva mai avuto prima di Manzoni: Chailly lo racconta ma anche lo illustra con una varietà strepitosa di colori, esaltando le colossali aperture melodiche (poche opere di Verdi hanno simile ricchezza di melodie una più trascinante dell’altra) ma chiaroscurandole di continuo con ripiegamenti di lancinante lirismo e con sapientissime sottolineature di alcune tra le pagine sue più moderne, una per tutte la Ronda con la sua scrittura già espressionistica (e pensare che la famigerata tradizione esecutiva costumava tagliarla!).

Può farlo compiutamente grazie a un cast che nulla ha da invidiare a certi esempi d’oro del passato. Anna Netrebko, timbro bellissimo, linea amplissima capace però di sfumature impalpabili ma che la ricchezza d’armonici rende in grado di saturare di suono una sala non proprio piccola: e l’accento è una miniera di sfumature una più bella dell’altra. Brian Jagde ha un torrente di voce dal timbro splendido, screziato da fascinose bruniture che salendo - e sale con una omogeneità e morbidezza strepitose - sfolgorano con uno squillo che non si sentiva da anni. Ludovic Tézier ha anche lui voce robusta e bella, che usa benissimo. Alexander Vinogradov ha diverse inflessioni slaveggianti ma ha tutte le note e le rende sempre espressive. Preziosilla, Melitone e Trabuco sono parti che narrativamente sarebbero di contorno, ma innumerevoli lettere di Verdì chiariscono come per lui fossero fondamentali: Vasilisa Berzhanskaya, Marco Filippo Romano e Carlo Bosi è certo l’avrebbero pienamente soddisfatto, con caratterizzazioni da grandi artisti. Quanto all’impegnatissimo coro di Alberto Malazzi, ogni lode è un portare ulteriori vasi in una Samo già intasatissima: ma questo è davvero un vaso straordinario.

Lo spettacolo di Leo Muscato si svolge tutto su di un grande girevole sugli spicchi del quale si susseguono - sorta di perenne piano sequenza cinematografico - diversi ambienti e situazioni ambientati in quattro epoche diverse (dal Settecento all’Ottocento alla Grande Guerra ai giorni nostri) ma tutte accomunate dalla guerra che reitera nei secoli le sue atrocità generatrici di rovine materiali e morali. Idea che trovo eccellente proprio per la sua capacità di rendere evidente quella successione di stampe popolari, sorta di frontespizi della Domenica del Corriere, che dell’opera costituiscono l’aspetto più segreto ma anche il più affascinante: e che stabilisce una simbiosi perfetta con l’orchestra di Chailly. Il quale è stato accolto da autentiche ovazioni al suo rientro per il quart’atto (che ha reso capolavoro nel capolavoro): meritatissime, al pari di quelle che hanno salutato l’intera compagnia; dissenso invece per il regista, cosa che non condivido per nulla.