MATTEO RENZI ha fatto bene a non cedere alle richieste (anche di amici) di rinviare le primarie e il congresso sperando che smetta di piovere sulla sua famiglia (Tiziano) e sul suo collaboratore storicamente più vicino (Luca Lotti). Stabilendo la data del 30 aprile, la settimana scorsa l’ex tutto (premier e segretario) ha tirato una linea netta: potete bocciarmi, non impedire di candidarmi. Chi ha fiducia in lui nel nuovo Pd, lo segua. Chi non ne ha, voti per Orlando o Emiliano. Questa scelta impedisce le elezioni a giugno e le rinvia tra l’autunno e la scadenza naturale di febbraio. Ma chiarirà in meno di due mesi chi comanda nel partito mutilato dalla scissione.
È una decisione che giova anche al governo. Renzi ha un carattere opposto a quello di Gentiloni: decisionista per quanto l’altro è mediatore, usa il pieno d’orchestra dando forza ai fiati per quanto il premier preferisce i violini e – se deve incupire la voce – lo fa al massimo col contrabbasso. Ma se il partito che controlla un governo quasi monocolore non ha una guida sicura, non può esserlo nemmeno la seggiola del presidente del Consiglio. Anche se la direttrice che Gentiloni ha impresso al governo non incontrasse il pieno consenso di Renzi, un nuovo caso Letta sarebbe difficile da prevedere. L’ex premier sa quanto siano enormi i problemi dell’Italia in questo momento e non ha interesse a raccogliere cocci se mai dovesse tornare a palazzo Chigi o essere l’editore di riferimento di chi ci andrà.
La stabilità nel Pd è dunque essenziale alla stabilità di palazzo Chigi. Per questo, nonostante la bufera mediatica e giudiziaria che ha colpito le persone a lui più vicine, Renzi non ha interesse a tirarla per le lunghe. A meno che l’inchiesta non vada oltre limiti imprevedibili.