Editoriale

Made in Caporalandia

Comprereste una borsa fabbricata da operai cinesi sfruttati e pagati due euro all’ora, salariati in nero, costretti a vivere in condizioni degradanti all’interno di fatiscenti laboratori-dormitorio, obbligati a lavorare 14 ore al giorno con macchinari a cui sono stati tolti i dispositivi di sicurezza allo scopo di accelerare la produzione? Molti di voi – anzi, spero tutti – risponderebbero di no, perché agevolare lo sfruttamento e il caporalato è sbagliato.

Per questo ci viene quotidianamente raccontato di non comprare vestiti online, di evitare il fast fashion e le sottomarche, di preferire i capi più costosi rispetto a quelli più economici, di optare per le cosiddette “filiere controllate”. Ci viene suggerito, molto spesso, di scegliere il Made in Italy (potendoselo permettere, ovviamente). Come se quel marchio di origine controllata rappresentasse un magico emblema di rettitudine.

E ci si può anche credere, finché il dubbio non bussa alla porta. Cioè finché un’inchiesta della Procura di Milano non scopre che alcune delle borse di pelle Armani vendute nelle boutique a 1.800 euro vengono realizzate da quegli stessi operai cinesi sfruttati e sottopagati accennati all’inizio (al costo di produzione, peraltro, di circa 90 euro). Solo che questo non accade in qualche remota fabbrica cinese, ma all’interno di opifici abusivi disseminati nelle province di Milano e Bergamo. Sotto i nostri occhi, in mezzo alle nostre città. Per l’appunto: in Italia.

Beninteso, i prodotti fabbricati nel Bel Paese sono generalmente molto più “etici” rispetto a quelli provenienti da Paesi come Cina, India, Vietnam o Bangladesh. Tuttavia, meglio tenere a mente che il racconto sulle intrinseche virtù del Made in Italy a cui ormai siamo abituati non è sempre veritiero.