
di Franca Ferri
Perfetta parità di genere fra i dipendenti, donne in ruoli chiave per lo sviluppo e per i progetti di sostenibilità che sono uno dei fiori all’occhiello: Caviro, la cooperativa agricola che è la prima azienda per volumi di vino prodotti del nostro Paese, ha colmato il ‘gender gap’: "In Caviro siamo esattamente 50% donne e 50% uomini – spiega il direttore generale SimonPietro Felice (nella foto in alto)–, e moltissimi ruoli apicali, da responsabili di funzione o di processo sono ricoperti da donne, di formazione sia tecnica che che umanistica. Abbiamo un ampio spettro di donne in charge".
C’è un progetto-chiave affidato alle donne?
"La sostenibilità è guidata da un team multifunzionale composto da tre donne: una ingegnere, una responsabile della comunicazione, e una persona del controllo di gestione, perché per dimostrare la sostenibilità ci vuole anche la rendicontazione. Sono tre donne a dare gli obiettivi, sia all’azienda che alla filiera, su come creare più sostenibilità, ad esempio risparmiando più Co2, più acqua. Il fatto che la guida sia loro permea il nostro programma con una attenzione diversa all’ambiente e all’etica".
Qual è il valore aggiunto?
"Le donne sono più brave a trovare soluzioni, forse perché sono più abituate a fare qualcosa un po’ con tutto. Credo che in una azienda avere persone con la capacità di trovare soluzioni dove gli altri non li trovano, soprattutto nei momenti di criticità, serva tantissimo perché in questo modo si diventa davvero più sostenibili".
Discorso un po’ diverso guardando i vostri 12.400 soci produttori di vino...
"È vero, troviamo in stragrande maggioranza nomi di uomini. Moltissime sono aziende piccole, con una estensione media di tre ettari di vigneto, e ci lavora tutta la famiglia, comprese le donne".
Cosa significa produrre vino in modo sostenibile?
"Per noi si traduce nel riutizzo degli scarti, quindi zero sprechi in tutto il processo, per creare un’economia circolare. Fare il vino è il nostro business principale, ma utilizziamo tutti gli scarti, in tutte le fasi del processo produttivo, per farne qualcos’altro, e alla fine per tornare in vigna con un fertilizzante organico biologico".
Avete chiuso il 2020 con un +10% in bilancio: cosa è successo?
"Non abbiamo mai interrotto la produzione, anzi abbiamo lavorato su tre turni, sei giorni su sette durante il primo lockdown, perché il nostro prodotto principale, che è il Tavernello, ha avuto picchi del 20-30% in quei mesi. Ci siamo abituati alla nuove condizioni, oggi sembriamo più una azienda chimica che una azienda vinicola. Però ne è valsa la pena, e per ringraziare i nostri dipendenti, abbiamo dato a tutti una ‘quindicesima’ equivalente a una mezza mensilità. E soprattutto abbiamo cercato di consolidare tutte quelle situazioni precarie (una trentina) per dare garanzia di stabilità di fronte allo sforzo enorme che hanno fatto".
Bene anche le vendite all’estero: quanto vale essere italiani?
"Tantissimo. Più che la forza del singolo marchio, il vero valore del nostro vino è essere ‘made in Italy’, perché ci viene riconosciuto non solo un know-how speciale, quindi saper fare del buon vino, ma anche il fatto che siamo molto innovativi. Tanti altri Paesi hanno imparato a fare il vino, ma non hanno quel quid, quell’artigianalità, quell’innovazione che noi diamo nei nostri prodotti"
C’è stato qualcosa, a livello di sistema vino, che non ha funzionato?
"Potevamo sfruttare molto meglio il valore dell’italianità, e invece non abbiamo dato una bella immagine: qualche scandalo, qualche diatriba, qualche prezzo sbagliato. E ne abbiamo risentito tutti. Il sistema vino, non avendo un capo, un leader, essendo un insieme di tante voci, a volte non fa una buona propaganda di sè all’estero. L’appeal del made in Italy è fortissimo, ma il vino potrebbe fare molto più"
Un esempio a cui guardare?
"La California. Hanno creato aziende grandi e di qualità, mentre noi abbiamo troppe aziende piccole, piccolissime, belle ma che non hanno nessuna voce all’estero. I californiani hanno una voce corale, hanno un leader che parla per tutti, tengono i prezzi alti perché credono nel loro valore, mentre qui c’è spesso la guerra dei prezzi tra aziende. E dal niente hanno creato un’economia del vino che non è come la nostra, però se guardiamo cosa eravamo noi e cosa erano loro 20 anni fa, bisogna dire che hanno quasi chiuso il gap di grande vantaggio che noi avevamo".