La battaglia del grana, tra originale e similari. Gran Moravia sfida il consorzio padano

La Brazzale, azienda veneta che produce il suo formaggio in Repubblica Ceca, rivendica l'utilizzo del termine. E la questione finisce (di nuovo) in tribunale

Roberto Brazzale

Roberto Brazzale

La battaglia del grana. No, non è un refuso, intendiamo proprio il formaggio, il formaggio duro come lo chiameremo d’ora in avanti, perché sull’utilizzo del termine grana è in corso una causa giudiziaria. Una battaglia, appunto.

A sfidarsi sono la Brazzale, storica azienda casearia veneta che vorrebbe utilizzarlo per il suo Gran Moravia, e il Consorzio Tutela Grana Padano Dop, che sostiene l’inscindibilità della denominazione: il grana o è padano o non è, e se non è deve chiamarsi in altro modo. Il pronunciamento del Tribunale di Venezia, dove è in corso la causa, è atteso in questi giorni. Una sorta di secondo round, dopo quello del 2007 davanti alla Corte di Giustizia europea vinto dal consorzio contro la Biraghi.

La questione, come si può facilmente intuire, non è prettamente linguistica, dal momento che riguarda l’utilizzo di un termine attorno al quale ruota un business da centinaia di milioni di euro. Roberto Brazzale, presidente dell’azienda che dal 2003 produce in Repubblica Ceca il Gran Moravia (300mila forme l’anno, il 60% delle quali vendute in Italia), nell’omonima regione storica dell’Impero Asburgico, la spiega così: “Tutte le denominazioni agricole tutelano il territorio, non il nome del prodotto, in questo caso invece il Consorzio considera una propria esclusiva anche il nome generico del formaggio. Ma come si può pretendere che quello prodotto in Pianura Padana sia l’unico grana al mondo? Pensiamo a uno scenario simile nel mondo del vino: sarebbe impossibile, perché lì giustamente si insiste sul concetto di terroir, non sull’appropriazione del nome del vitigno”.

Per Brazzale il Gran Moravia è dunque un grana a tutti gli effetti, anche se con quello padano non ha nulla a che spartire. Precisazione doverosa, questa, dato che il formaggio ceco era finito al centro di una puntata di Report su presunte contraffazioni del Grana Padano Dop. “Noi non spacciamo il nostro formaggio come italiano – puntualizza Brazzale – anzi, ne rivendichiamo la territorialità a partire dal nome. Abbiamo persino smesso di produrre Grana Padano e siamo usciti dal consorzio da quando abbiamo il Gran Moravia, perché lo riteniamo un prodotto qualitativamente valido. Il rapporto bestiame/ettari è di una mucca ogni quattro, contro lo 0.4 della Pianura Padana dove oltretutto è sempre più accentuato il problema del caldo e della siccità, mentre in Moravia non c’è nemmeno bisogno di irrigare. Qui abbiamo una filiera ecosostenibile certificata che ci fornisce un latte di altissima qualità. E come tutti sanno, un buon latte è la base di un buon formaggio”.

Il discorso si fa quindi più ampio e, sempre secondo Roberto Brazzale, riguarda il modo di fare impresa del settore caseario. “Siamo l’unico gruppo italiano presente all’estero come produttori - rivendica l’imprenditore – nel 2018 abbiamo anche aperto un caseificio in Cina, a Shandong, dove produciamo formaggi freschi destinati al mercato interno. Quando nei primi anni Duemila siamo arrivati in Repubblica Ceca, ci siamo confrontati con colossi stranieri come la francese Lactalis e la tedesca Muller, abbiamo dovuto convincere gli allevatori locali a dare il latte a noi invece che a loro. Siamo sul mercato, siamo nell’Unione europea, non possiamo pretendere di farci scudo di una denominazione in maniera protezionistica per evitare la concorrenza”.

Dal canto suo il Consorzio Tutela Grana Padano Dop, che ha 200 soci e di forme ne produce 5 milioni e 200mila l’anno, non entra nel merito della discussione, tenendo tuttavia a sottolineare come “il problema della siccità in Pianura Padana non è arrivato a livelli tali da indurre problemi qualitativi nel prodotto”. Sulla questione più pesante sul tavolo, quella del nome grana che ha preso le vie legali, il direttore Stefano Berni si esprime così: “Non andiamo ad anticipare sui media una discussione che è già attiva in sede di tribunale, rispettiamo il lavoro dei giudici. E in Tribunale siamo stati costretti ad andarci, avevamo il dovere di farlo perché è la legge che impone ai consorzi, organismi privati di pubblica funzione, di tutelare la denominazione. In caso contrario saremmo stati passibili di inadempienza in atti d’ufficio”.