La verità sulla morte di Enrico Mattei è rimasta sepolta nel fango

L’aereo sul quale viaggiava il presidente dell’Eni precipitò a causa di una bomba, ma 40 anni di indagini e processi non hanno scoperto né gli esecutori, né i mandanti

Il luogo dello schianto (sinistra) e l'ultima foto di Enrico Mattei (alto-destra)

Il luogo dello schianto (sinistra) e l'ultima foto di Enrico Mattei (alto-destra)

Il fango incrosta i relitti del Morane-Saulnier sparsi nella campagna di Bascapè. Il fango dei depistaggi ingessa la ricerca della verità. Il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, appunta la sua attenzione su «i comportamenti e le dichiarazioni di persone che si sono occupate a vario titolo della vicenda [...]. Solo la volontà di nascondere il delitto giustifica, infatti, manipolazioni, soppressione di prove e omissione delle indagini che avrebbero potuto spiegare con facilità e per tempo le cause della caduta dell’I-SNAP».

Secondo la ricostruzione del magistrato pavese l’assassinio del presidente dell’Eni è premeditato da mesi. L’organizzazione, meticolosa ed efficiente, prevede che Enrico Mattei venga richiamato in Sicilia. Così avviene, il 26 ottobre del 1962. La notte successiva il bireattore viene portato in un’area militare. Trasferimento inusuale, che non accadeva mai. È nell’Officina Grandi Riparazioni dell’aeroporto di Catania che qualcuno, tecnicamente esperto, colloca l’esplosivo.

Il luogo dove si è schiantato l'aereo di Enrico Mattei, a Bascapé, in provincia di Pavia

I depistaggi iniziano già la sera di quel sabato 27 ottobre 1962. C’è una piccola folla che si aggira fra i pioppi, accanto a soccorritori, carabinieri, polizia. La mattina dopo arriva il presidente della commissione d’inchiesta nominata dal ministero della Difesa. Rievoca Augusto Pelosi, che comanda la stazione dei carabinieri di Landriano: «Io ricevevo pressioni da tutte le parti, ma ero l’ultima ruota del carro [...]. Della vicenda Mattei e delle relative indagini si occuparono i servizi segreti, che mettevano il naso dappertutto». E il brigadiere dei carabinieri Nedo Bracci, che all’epoca comanda la squadra di polizia giudiziaria presso la pretura di Corteolona, parla di persone «in borghese, che non appartenevano all’Arma o alle forze di polizia, che ho poi ritenuto, diversi giorni dopo, potessero far parte dei servizi di sicurezza [...]. Io ricordo che tali persone mi avevano dato fastidio perché il lavoro di ricerca era stato già fatto da noi e non capivo perché essi si sovrapponessero alle indagini svolte prioritariamente da noi dell’Arma: se io fossi stato il comandante li avrei allontanati, salvo che non fossero esecutori di ordini superiori».

La commissione militare non interpella testimoni. Non cerca eventuali tracce di esplosivo. I rottami dell’apparecchio vengono lavati. Non viene presa in considerazione la perizia dell’Aeronautica che parlava già allora di «bomba a bordo». Il 31 marzo 1966 il giudice istruttore di Pavia archivia l’inchiesta, come richiesto dalla Procura, perché «il fatto non sussiste»: nessuno scoppio in volo e comunque nessun sabotaggio.

Nel 1994 le dichiarazioni di due pentiti di mafia, Gaetano Iannì e un personaggio di ben altra caratura come Tommaso Buscetta, proiettano la mano di Cosa Nostra sulla morte del presidente dell’Eni. Iannì riferisce che «per l'eliminazione di Mattei c'era stato un accordo tra gli americani e Cosa Nostra».  Più ampie e articolate le dichiarazioni di Buscetta: «Il primo delitto “eccellente” di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell'Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione». L'indicazione di uccidere Mattei giunse da Cosa Nostra americana «che chiese questo favore a nome della Commissione degli Usa e nell'interesse sostanziale delle maggiori compagnie petrolifere americane».

Il pentito Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile il 24 ottobre 1983, rientra in Italia

A Pavia il pubblico ministero Vincenzo Calia apre la terza inchiesta. Lo sforzo investigativo è immane, l’inchiesta è monumentale, concentrata in 450 pagine di requisitoria. Il 21 giugno 1996 vengono riesumate le salme di Mattei e del pilota Irnerio Bertuzzi «allo scopo di ricercare e analizzare eventuali tracce di qualsiasi natura riferibili alle modalità e alla cause del disastro aereo, o comunque rilevanti per le indagini». Ai periti vengono consegnati i reperti dell’aereo. Diverse perizie, affidate al medico legale Carlo Torri, all’ingegnere Donato Firrao, al capitano dei carabinieri Giovanni Delogu, all’esperto di esplosivi della Marina militare, portano a un risultato univoco e terribile: l’aereo è esploso in volo, è stato un attentato, Mattei è stato assassinato.

Quarant’anni dopo l’inchiesta di Pavia ha «permesso di ritenere inequivocabilmente provato che l’I-SNAP precipitò a seguito di una esplosione limitata, non distruttiva, verificatasi all’interno del velivolo». «Tale carica esplosiva, equivalente a circa cento grammi di Compound B, fu verosimilmente sistemata dietro il cruscotto dell’aereo, a una distanza di circa 10-15 centimetri dalla mano sinistra di Enrico Mattei, e probabilmente fu innescata dal comando che abbassava il carrello e apriva i portelloni di chiusura dei suoi alloggiamenti». Prosegue il magistrato pavese: «È infatti provato che l’esplosione si verificò durante il volo e non in coincidenza o dopo l’impatto col suolo; che il serbatoio, i motori e la bombola d’ossigeno non esplosero».

La dinamica dello schianto descritta nella documentazione giudiziaria

Chi aveva potuto volere la morte di un potente? «L’esecuzione dell’attentato venne decisa e pianificata con largo anticipo, probabilmente quando fu certo che Enrico Mattei, nonostante gli aspri attacchi e le ripetute minacce, non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato».

Qualche banco di nebbia si è diradato. Quelli che rimangono continuano a proteggere mandanti ed esecutori: «Le prove orali, documentali e logiche raccolte, pur avendo consentito di delineare il contesto all’interno del quale maturò il delitto, non permettono l’individuazione degli esecutori materiali né, per quanto concerne i mandanti, possono condurre oltre i sospetti e le illazioni».

Nel marzo del 2003 il pubblico ministero Vincenzo Calia chiede che l’inchiesta venga archiviata.