Vittima di un fidanzamento-truffa, decapita l'amico a Torino: condannato all'ergastolo

Il 25enne aiuto cuoco del Bangladesh aveva conosciuto la promessa sposa a distanza e le aveva inviato 4.500 euro. Poi la famiglia di lei aveva annullato tutto

Per il 25enne bengalese la pena dei giudici è stata massima

Per il 25enne bengalese la pena dei giudici è stata massima

La vittima di un «fidanzamento truffa» che si trasforma in carnefice. Questa la parabola di Mohamed Mostafa, 25enne del Bangladesh che oggi a Torino è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del connazionale Mohamed Ibrahim: lo ha strangolato e poi, quando ormai era privo di vita, gli ha staccato la testa, assecondando una credenza assai diffusa nelle zone da cui proviene, per evitare che il suo spirito lo perseguitasse. La sentenza della corte d’assise riguarda un delitto scoperto il 9 giugno 2021 in un appartamento di corso Francia. 

Mostafa, nella sua parlata difficile al punto che nel corso del processo è stato un problema trovare un interprete affidabile (ne sono stati cambiati tre in cinque udienze), ha confessato. Molti punti, però, sono rimasti oscuri. A cominciare dal movente. I pm Valentina Sellaroli e Marco Sanini hanno accennato brevemente al «rancore», «al desiderio di vendetta» e al «substrato culturale che impone di lavare l’onore nel sangue», ma non hanno scelto fra le due ipotesi: quella che loro stessi hanno definito «il fidanzamento truffa» o quella di un debito non saldato.

Mostafa era stato amico di Ibrahim. Aveva la sua stessa età e con lui era arrivato in Italia alla Libia nel 2014. Un giorno il connazionale gli parlò di una sua giovane parente rimasta in Bangladesh. Gliela fece conoscere a distanza, con una videochiamata. E in breve la ragazza divenne la «promessa sposa» di Mostafa. Il quale prese a inviarle 200 euro ogni mese: non poco, visto il suo magro stipendio di aiuto cuoco. A questa somma si aggiunsero gli extra: come la volta in cui gli spiegarono che lei, malata di anemia, doveva «comprare il sangue». Finché, un giorno, il matrimonio fu annullato per decisione della famiglia di lei. 

«In tutto - ha raccontato Mostafa - avevo versato 4.500 euro. Ma non ho mai voluto i soldi indietro». Il debito “vero“ era con Ibrahim, da cui, a quanto pare, attendeva il rimborso di 4mila euro. L’avvocato difensore, Nadia Di Brita, ha fornito una lettura diversa: «Non è stato un omicidio premeditato. A nostro avviso Mostafa andò a casa di Ibrahim e fu aggredito nel corso di una lite: come spiegare diversamente il fatto che aveva un dito rotto?». Quanto alla decapitazione, è stata una specialista interpellata dal legale, Marzia Casolari, docente di storia e istituzioni dell’Asia, a spiegare che molto probabilmente è il prodotto di una credenza molto diffusa: tagliare la testa alla vittima per non essere tormentati dal suo spirito.

«Per capire a fondo la storia - ha affermato - dobbiamo calarci in una mentalità molto diversa e tenere presente che Mostafa è una persona analfabeta e di estrazione sociale modestissima. Dopo l’arresto ha confessato il delitto e ha detto di ‘non ricordarè niente della testa di Ibrahim. In realtà non poteva parlarne, perché gli spiriti sono un argomento tabu». La Corte d’assise, dopo avere accolto la tesi dei pm sulla premeditazione, non ha applicato l’aggravante della crudeltà. Però ha ordinato la trasmissione degli atti in procura per l’avvio di un nuovo procedimento per vilipendio di cadavere.