Coronavirus, ancora tanti infetti: il caso Bergamo-Brescia

Gli ospedali si stanno svuotando, ma le due province hanno il doppio di positivi della media regionale. Nel mirino le mancate chiusure

Emergenza Covid

Emergenza Covid

Milano, 5 giugno 2020 - L’epidemia va scemando, gli ospedali si svuotano e si spengono i monitor dei respiratori delle terapie intensive lombarde. Stiamo tutti meglio e le mascherine, per ora, bastano a evitare i disastri preconizzati prima della riapertura. Ma Bergamo e Brescia, le province frontiera del Covid-19, restano quelle con l’incidenza più alta, arrivando a sfiorare quasi il doppio della media di regionale di casi di Coronavirus ogni mille abitanti. Nell’arco di un mese il dato-indice cresce ovunque, perché salgono i numeri dei casi totali. 

Ma i due territori dell’Est-Lombardia spiccano con incrementi maggiori, ampliando il distacco con Milano. Il 4 maggio a Bergamo c’erano 11.538 malati ufficialmente censiti, il 14,7% del totale dei 78mila casi lombardi. Ieri la percentuale era salita al 15,5% (13.466) degli 86mila malati da inizio pandemia in tutta la regione. Il tasso di incidenza è cresciuto di conseguenza, da 10 casi ogni mille residenti a 13,5. In Lombardia il dato era di 7,7 casi ogni 10mila residenti a maggio ed è ora dell’8,5 per mille. Quasi la metà, appunto, di quello orobico. La performance peggiore, quella bergamasca, che segna la distanza con il Bresciano. Qui al 4 maggio i malati erano 13.122, il 16% del totale in numeri assoluti, ma l’incidenza era di 10,3 casi ogni 1.000 abitanti. In linea con i vicini. Un mese dopo, il dato sale a 11,7 casi ogni mille residenti. Meno di Bergamo, nonostante in termini assoluti i malati siano 14.881, pari al 17,1% di tutti i pazienti Covid della Lombardia.

E Milano, invece? Qui il muro del lockdown, stando alle analisi della Regione, ha fortunatamente retto. E soprattutto è calato prima che la circolazione del virus fosse così ampia da rendere impossibile arginare il picco disastroso che Bergamo e Brescia hanno conosciuto insieme a Lodi. Quest’ultima realtà, invece, partita per prima come focolaio, ha beneficiato dei drastici effetti della vera zona rossa, perdendo terreno progressivamente nella corsa al contagio, non arrestata a Bergamo. E da lì l’espansione massiccia di casi verso la vicina provincia di Brescia. Lo dimostrano, ancora una volta, i dati. Quelli del 4 marzo, tre mesi fa.  Allora la provincia di Lodi era per metà chiusa ermeticamente e si contavano 559 malati in totale. Nella Bergamasca si era già a 423. A Brescia solo a 127 e nel Milanese, con 3,2 milioni di abitanti, appena a 145.

Si cominciò allora a discutere in modo confuso sulla necessità di una zona rossa fra Nembro e Alzano. Arrivarono le camionette, ma non si chiusero le strade. E il 9 marzo, alla vigilia del grande lockdown italiano, i numeri già facevano spavento: la provincia di Bergamo con 1.245 malati aveva già superato Lodi, ferma a 928. Il Bresciano era a 739 e Milano a 506. Il muro del tutti-a-casa a quel punto era pronto a calare. Ma Bergamo e la vicina Brescia erano già sfuggite di mano. Prima ancora delle polemiche o delle inchieste si erano gettati i semi di quello che mesi di rigida chiusura potevano solo rallentare, ma non impedire. Nascono da qui l’anomalia di Bergamo (a ruota quella di Brescia) e il caso “fortunato” di Milano, funestata, ma non spopolata come alcune zone della Val Seriana, dalla peste del nuovo millennio.