Vialli e Cremona, l’affetto tra tanti ricordi: "Che dolore per Gianluca"

La città piange il giocatore che ha tirato i primi calci all’oratotio Cristo Re. Lunedì lutto cittadino e bandiere a mezz’asta in concomitanza coi funerali

Un giovane Gianluca Vialli ai tempi della Cremonese

Un giovane Gianluca Vialli ai tempi della Cremonese

Cremona - Lunedì lutto cittadino e bandiere a mezz’asta, in concomitanza con i funerali a Londra di Gianluca Vialli, e messa alle 18 a Cristo Re, dove il campione ha tirato i primi calci. Cremona piange in silenzio il suo campione che ha detto addio a tutti. E lo ricorda, perché Gianluca spesso tornava dove aveva famiglia e amici.

Tra questi, il campo dell’oratorio di Cristo Re. "Me lo ricordo da dietro la cancellata, con gli altri bambini – racconta Giordano Nobile, presidente della polisportiva Corona –. L’oratorio apriva alle 15,30, i ragazzi stavano dietro il cancello finché arrivava il vicario, don Angelo Scaglioni, che buttava una decina di palloni in campo. Chi arrivava primo giocava". Tra di loro, il piccolo Vialli. "L’ho conosciuto che aveva 9 anni. Ultimo dei suoi fratelli, veloce e sgusciante in campo. Come i numeri 10 dell’epoca. Prima di dedicarsi al calcio, aveva sentito la sirena del basket: Maurizio Mondoni, l’anima della pallacanestro cremonese, aveva cercato di farlo innamorare di questo sport. Ma il richiamo del calcio era troppo forte".

Poi Gianluca è passato al Pizzighettone. "All’epoca non c’erano i tesseramenti. Noi avevamo solo una squadra Allievi e Vialli era troppo giovane. Un giorno arrivò un certo Istriani, che era del Pizzighettone, e lo portò là. La famiglia non ebbe nulla da dire perché aveva una tenuta a Grumello, vicino Pizzighettone. Da lì cominciò l’epopea del ragazzo". Vialli è tornato più volte. "Sì, qui era di casa. Quando abbiamo fatto il libro per i 40 anni della Polisportiva Corona, scrisse una lettera da inserire nel volume: ricordava e ringraziava".

Anche Mario Donelli, allenatore e compagno di gioco di Viallli nelle giovani, ricorda: "Sempre insieme, in campo e fuori. Bastava uno sguardo per capirci, un movimento, la palla a lui ed era gol. In una squadra piena di bresciani, gli unici cremonesi eravamo io e lui. Chiedeva di imparare il dialetto bresciano, proprio lui che a malapena sapeva quello cremonese, e ogni volta che tentava di parlarlo uscivano strafalcioni comici e allora rideva di gusto, come un bambino felice di stare con i propri compagni, col quello splendido sorriso, un sorriso con la luce negli occhi".