Brescia, caso Caffaro tra aperture e follie burocratiche

Dopo la scoperta di cromo e mercurio, stop alle attività dell’azienda che ha ereditato parte dell’impianto

Severo e Pierino Andreoli sui loro appezzamenti incolti da 20 anni (Fotolive)

Severo e Pierino Andreoli sui loro appezzamenti incolti da 20 anni (Fotolive)

Brescia, 17 ottobre 2019 - "Sarei  disponibile a spendere 250mila euro per stoccare il contenuto delle cisterne, ma ci dicano come dobbiamo svuotarle e dove dobbiamo mettere il contenuto". A due giorni dalla sospensione dell’Autorizzazione integrata ambientale, che ha bloccato l’attività di Caffaro Brescia, parla Donato Todisco, amministratore delegato dell’azienda che dal 2011 opera all’interno dello stabilimento di via Milano. Nonostante il nome, l’azienda che fa capo alla Chimica Fedeli di Pisa (gruppo Todisco) e che produce il 70% del clorito di sodio usato in Europa per la potabilizzazione delle acque, non c’entra con la Caffaro del gruppo Snia, responsabile dell’inquinamento da Pcb. Tuttavia le loro storie si incrociano non fosse altro perché Caffaro Brescia si occupa del pompaggio che mantiene la falda a livello di sicurezza. Erano della vecchia azienda anche le quattro cisterne al centro del caso esploso lunedì con la sospensione Aia, emessa dalla Provincia sulla base delle analisi di Arpa, per il mancato svuotamento e rimozione delle quattro cisterne, che potrebbero essere la sorgente attiva di cromo VI.

"Pur riconoscendo la validità delle azioni di messa in sicurezza fatte – sottolinea il direttore generale Alessandro Francesconi – è arrivata la sospensione, non perché è stato verificato un pericolo di contaminazione del suolo, del sottosuolo o problemi di salute pubblica, ma perché non si può escludere che ci sia questo rischio". In realtà sarebbe solo una la cisterna che, da due anni, perde cromo VI, in modo non continuativo (circa 100 litri al mese), che viene raccolto in cisternette, lasciate nel sito in quanto le quantità rientrano nei limiti autorizzati. Altra cosa sarebbe se si dovessero stoccare i 200 metri cubi di materiale: l’azienda sarebbe disponibile ad assumersi gli oneri (sono state già contattate un paio di aziende specializzate), purché la Provincia, ente competente in materia, dia delle indicazioni sulle modalità operative. Il dialogo con la Provincia, fanno capire dall’azienda, è tuttavia difficoltoso.

Ieri mattina ci sarebbe dovuto essere un incontro chiarificatore tra l’azienda, che aveva annunciato via Pec la sua visita, ed il Broletto, che ha preso atto dell’annuncio ma che non ha risposto alla mail in quanto non interlocutoria. Fatto sta che dirigente del settore ambiente e consigliere delegato hanno atteso invano i vertici di Caffaro Brescia. Ad ogni modo, in Broletto sarebbe ben accetta una proposta operativa dall’azienda, che intanto ha però annunciato di voler presentare, già oggi, ricorso al Tar con richiesta di sospensiva del provvedimento provinciale. L’interruzione di attività, infatti, è ora la preoccupazione principale per l’azienda, che continuerà comunque a pagare gli stipendi dei 55 lavoratori e 100mila euro al mese di emungimento. Il timore, però, è che questa vicenda metta a rischio l’efficienza dell’emungimento. "L’uso di acqua per l’impianto produttivo – sottolinea Todisco – faceva sì che si mantenesse una certa pressione delle pompe. Ora potrebbe portare a far scoppiare i tubi e l’emungimento non si potrebbe più fare".

Quanto alla bonifica, oggi alle 18,30 il Ministero ha convocato un incontro a Roma, dopo la sollecitazione arrivata dal Comune alla luce del caso mercurio che ha portato al sequestro del capannone 24 del sito di via Milano. Il caos degli ultimi giorni ha portato intanto gli ambientalisti di Basta Veleni ad inviare agli enti che si occupano di temi ambientali, tra cui il Ministero, un documento per chiedere un intervento immediato. Con loro, anche Pierino e Severo Andreoli, proprietari di campi da vent’anni incolti a causa della contaminazione da PCb, su cui però gli agricoltori continuano a pagare l’Imu.