Omicidio Stefania Crotti, le motivazioni della condanna: fu un piano diabolico

Condannata a trent’anni di carcere, Chiara Alessandri agì con freddezza e determinazione

Stefania Crotti

Stefania Crotti

Gorlago (Bergamo), 1 settembre 2020 - Dopo la sentenza che ha condannato Chiara Alessandri a trent’anni di carcere per l’omicidio di Stefania Crotti, rivale in amore e moglie dell’uomo con cui aveva avuto una breve relazione l’estate precedente al delitto, ora se ne conoscono le motivazioni. Per il tribunale di Brescia, la Alessandri, 44 anni, tre figli di 7, 8 e 12 anni che non vede da quando è detenuta, è l’artefice del piano diabolico messo in atto a Gorlago il 17 gennaio 2019. Quando, con l’inconsapevole complicità di un amico, aveva portato la vittima nel garage della sua villetta per affrontarla. Secondo l’accusa, l’imputata era accecata dal desiderio di vendetta nei confronti della vittima, ritenuta responsabile dell’allontanamento di Stefano Del Bello, marito di Stefania Crotti (aveva 42 anni) madre di una bimba di 8 anni. Le due donne si erano evitate a vicenda. Solo in una occasione, davanti a scuola, era nata una discussione. Quel maledetto pomeriggio la ricerca di un confronto fisico da parte della Alessandri, scrive la corte, appare spiegabile con un intento violento e vendicativo di distruzione e annientamento dell’antagonista. Si era legata al marito della vittima, con il quale aveva avuto una breve relazione, un attaccamento morboso, come viene descritto, e volte aveva un atteggiamento che faceva paura. E quel giorno della trappola mortale, aveva messo in atto un piano per liberarsi della concorrente in amore per riprendersi l’uomo amato.

Un disegno perseguito con ferocia anche nei minimi particolari, covato, per considerevole lasso temporale, una volontà soppressiva della rivale in amore. La Crotti, una volta nel garage, era stata aggredita a colpi di martello. Il suo corpo era stato poi ritrovato semi carbonizzato nelle campagne di Erbusco, dove, secondo i successivi risultati dell’autopsia, sarebbe arrivata incosciente ma ancora viva. C’erano tracce di fumo nei suoi polmoni. Per tale ragione il processo si è svolto a Brescia (è competente il tribunale dove è avvenuta la morte). All’imputata il pm Teodoro Catananti, che aveva chiesto l’ergastolo, ha contestato l’omicidio premeditato e la soppressione di cadavere, reato assorbito dall’omicidio per i giudici. Lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato ha fatto scendere il verdetto a trent’anni. Difesa dall’avvocato Gianfranco Ceci, Alessandri ha sempre negato di avere dato fuoco al cadavere. Nell’udienza del 27 febbraio aveva ammesso di avere colpito Stefania con il martello, dopo che quest’ultima a suo dire l’aveva attaccata per prima. Ma contro di lei i carabinieri del Nucleo investigativo di Bergamo avevano raccolto una lunga serie di indizi, che da subito hanno convinto gli inquirenti a contestare la premeditazione. Alla lettura della sentenza, nessuno se l’era sentita di commentarla. Parti civili, marito e sorella della vittima, assistiti dall’avvocato Luigi Villa. «Io credo che la pena debba essere l’ergastolo non solo per quello che ha fatto, ma soprattutto per come lo ha fatto, con freddezza e lucidità», aveva dichiarato Del Bello alla vigilia della prima udienza preliminare.