GABRIELE MORONI
Cronaca

Francesco Doneda: "Il Covid? Peggio del sequestro"

Fu rapito nel ’79 Ora ha battuto il morbo

Francesco Doneda

Brembate (Bergamo), 9 maggio 2020 - «Nei 33 giorni del mio sequestro ho avuto paura. Ma il Covid è stato peggio. Pensavo di morire. Così ho chiamato vicino a me i miei familiari. Pensavo di non vederli mai più e mi sono raccomandato che andassero d’accordo, che si volessero bene". Francesco Doneda ha 85 anni. Vive a Brembate. Sono le tre del pomeriggio del 21 maggio del 1979 quando un gruppo di uomini mascherati e armati irrompe nel suo ufficio alla Calcestruzzi Orobica (oggi Nuova Demi), a Padergnone di Zanica. Lo stordiscono con un colpo alla nuca, gli coprono la testa con un cappuccio, lo trascinano via, lo scaraventano su una Bmw. Verrà liberato il 24 giugno nella zona di Cavenago.

Oltre quarant’anni dopo una nuova prigionia, una nuova paura dopo il contagio del virus. Il timore della morte è ancora più forte e violento. "È vero. Mentre i rapitori mi tenevano in quel bugigattolo, ho avuto paura che mi uccidessero. Conoscevo la storia di quello che era stato buttato nel lago d’Iseo. Mi venivano in mente i rapiti dati in pasto ai maiali. Un giorno mi hanno fatto mettere degli occhiali con i cerotti e mi hanno fatto salire su un’auto che è partita. Abbiamo superato un passaggio a livello. Ci siamo fermati. Eravamo in un prato. La rugiada bagnava i miei mocassini. Ho pensato: “Qui mi fanno fuori“. Mi hanno detto di contare fin a 500. Ho contato due volte. Ero libero".

Com’è stato il suo incontro con il Coronavirus? "Seguivo dalla televisione, dai giornali. Mi auguravo che non capitasse anche a me. Una sera, al rientro dal lavoro, ho sentito mancarmi il respiro e avevo la tosse. Poi è arrivata la polmonite. Per qualche giorno mi sono curato in casa, sperando che finisse. Invece continuavo a peggiorare. Mia moglie e i miei figli mi hanno fatto ricoverare all’ospedale Papa Giovanni XXIII, a Bergamo".

Che giorni sono stati? "La prima sistemazione è stata un lettino in corsia, dove erano già ricoverati altri pazienti. Quando ho visto tutti quei letti mi è venuta una gran paura. Avevo tosse, catarro. Ero così spossato che non avevo neppure la forza di alzare le braccia. Mi hanno messo il casco. Stavo male e rivedevo le immagini delle televisioni, le bare allineate in attesa della cremazione, i camion militari che le portavano via. Ho pensato che non sarei tornato a casa né vivo né morto. Mi sono raccomandato ai miei tre figli: “Vogliatevi bene“. Mi hanno messo l’ossigeno. Quando i valori sono migliorati, mi hanno tolto il casco. Avevo ripreso a mangiare qualcosa. Mi alzavo. Andavo ai servizi. Dopo quindici giorni mi hanno detto che c’era bisogno di letti e mi trasferivano all’Istituto Palazzolo. Lì mi hanno ridato l’ossigeno. Ancora tre o quattro giorni e alla vigilia di Pasqua ho saputo che mi mandavano a casa".

Da cosa è stato sostenuto? "La fede. Ho pregato i miei genitori come nei giorni del sequestro. La mia famiglia. Ringrazio i medici e gli infermieri. I pensieri che mi sono arrivati dall’esterno. Tifo Atalanta da sempre. Papu Gomez, De Room, Palomino, Luis Muriel hanno postato un video messaggio che mi incoraggiava a “molà mia“. Come il mio grand e amico Felice Gimondi. L’ho seguito in tanti Giri d’Italia, Tour, Milano-Sanremo: mai mollare".

E oggi? "Faccio la quarantena. Vedo mia moglie, i figli. Vedo il verde del prato e i fiori. Domenica scorsa mia figlia Daniela ha suonato al piano “Per Elisa“ di Beethoven. L’avevo sentita alla radio mentre ero sequestrato. Ho pianto, come avevo pianto allora. Piango anche adesso".