Little Steven, all’Alcatraz una bandana e tanto rock

Il chitarrista della E-Street Band in concerto nel locale di via Valtellina

Steve Van Zandt, in arte Little Steven

Steve Van Zandt, in arte Little Steven

Milano, 5 dicembre 2017 - Le cento maschere di Mr. Van Zandt. Vestito da Little Steven quando suona nella E-Street Band con il “fratello di sangue” Bruce Springsteen, da Silvio Dante nella serie tv “I Soprano” o da Frank “The Fixer” Tagliano nell’altra fiction “Lilyhammer”, Steven Lento (il cognome olandese l’ha ereditato dal patrigno) a volte inciampa nel suo gioco pirandelliano. Ma stasera sbarca all’Alcatraz con i suoi Discipline of Souls nei panni del rocker senza macchia e senza paura Steven Van Zandt, quello dell’ultimo album “Soulfire”, l’altro lato dell’universo E-Street Band. D’altronde lavorare con Jon Landau, l’uomo che ha saputo individuare il futuro del rock, e con il suo artista, il futuro del rock in persona, è divertente ma necessita dei suoi bravi momenti di decompressione. Perché se Springsteen è nato per correre, gli amici quando sono in servizio devono darsi una mossa per stargli dietro.

Steven qual è stato il suo concerto milanese più eroico?

«San Siro ha sempre qualcosa di speciale; la notte del 2003 con Bruce sotto la pioggia, ad esempio, me la ricordo ancora».

In “Soulfire” c’è pure della musica scritta per la serie “Lilyhammer”?

«Sì, il tributo ad Ennio Morricone di “Standing in the line of fire”, scritta a suo tempo con Gary U.S. Bonds”.

Di solito suona “I’m a patriot” ma non altri suoi brani politici famosi come “Sun city”. Perché?

«Il messaggio dello show non vuol essere “partigiano”. Soprattutto nel mio paese, viviamo tempi molto divisivi, in cui i repubblicani non dialogano con i democratici e viceversa, così non voglio arroccarmi anch’io su posizioni di intransigenza, ma parlare un linguaggio universale, che in fondo è quello della gente per strada».

Oggi è difficile essere artisti in America?

«Non avendo grandi hit, per me non è mai stato facilissimo. La mia musica è sempre un po’ underground. È una sfida ad ogni nuovo album, che per me rappresentano sempre occasioni di crescita e di contatto diretto con il pubblico, anche se ho sempre nell’attività d’attore e nella E-Street Band le mie brave uscite d’emergenza».

“I’m a patriot” era un attacco alle politiche Reagan. Oggi la situazione non è migliore di allora. Sta pensando di scrivere un’altra canzone?

«Se qualcuno alla Casa Bianca pensa che gli interessi dell’America vengono prima di quelli del pianeta terra è fuori strada».

Lei ha il palco pieno di musicisti, Bruce in occasione dei suoi concerti a Broadway neppure uno. Al momento sembrate avere una diversa visione della musica?

«Si direbbe proprio di sì; lui solo, noi in sedici. Il fatto è che io cerco un suono potente, mentre Bruce è una one-man orchestra».

Talvolta suona “Even the Losers” di Tom Petty. Che rapporto avevate?

«Eravamo amici, ma non fratelli. Gli avevo chiesto dei pezzi per la colonna sonora di ‘Lilyhammer’ e lui me li aveva dati».

Ha detto che le sue origini sono calabresi e quelle di Bruce napoletane, per questo lui è il più ambizioso dei due. Sicuro?

«Probabilmente è vero… tutta questione di radici!».