Fenegrò, spedito alla jihad per evitare cattive compagnie

Dalle carte emerge le motivazioni per cui l'egiziano arrestato per terrorismo si era dato da fare per il figlio

Saged Sayed Fayek

Saged Sayed Fayek

Fenegrò (Como), 28 gennaio 2018 - Spedito a vent'anni a fare la Jihad, la guerra santa, come una volta si veniva chiamati per fare il servizio militare. Il paragone può suonare irriverente me è più o meno quello che è capitato al giovane Saged Sayed Fayek Shebl Ahmed con l’unica differenza che a precettarlo è stato il padre Sayed, preoccupato per quel figlio che in Italia in mezzo agli infedeli stava prendendo una brutta piega e, lo si evince dalle intercettazioni, probabilmente aveva anche iniziato a fare uso di sostanze stupefacenti. «Si è giustificato affermando di aver agito per il bene di Saged, il quale, se fosse rimasto in Italia, sarebbe certamente destinato ad essere detenuto perchè aduso al consumo di sostanze stupefacenti», si legge nell’ordinanza.

Senza un lavoro e senza uno scopo nella vita per papà Sayed quel figlio che fino a quel momento veniva chiamato «stupido» nel lessico familiare poteva avere un solo modo per redimersi: diventare un combattente di Dio come aveva fatto anni prima lui stesso in Bosnia. E così il 30 giugno del 2014 Saged dall’Italia è partito alla volta della Turchia, su un volo partito dall’aeroporto di Milano Malpensa, per poi attraversare il confine diretto in Siria. Impossibile sapere chi l’ha accompagnato fino all’aeroporto, papà Sayed alcuni mesi dopo ha raccontato alla polizia di non saperne niente e che da mesi aveva cacciato di casa il suo primogenito proprio per le sue idee estremiste. In realtà è stato proprio lui a fornire al ragazzo il contatto in Turchia da chiamare al momento dell’arrivo, una persona fidata che lo avrebbe aiutato ad attraversare il confine e ad essere presentato alla brigata di Nour El Din Al Zenki, confluita con altre formazioni jihadiste come il Fronte Al Nusra nell’organizzazione terroristica impegnata a fare la guerra alle truppe di Bashar Al Assad.

Non solo, dal cellulare del padre sono partite diverse telefonate, al figlio ma anche ai suoi reclutatori, per accertarsi che tutto stesso procedendo per il meglio. E quando sei mesi dopo, nel gennaio del 2015, Saged si ferisce in maniera grave per l’esplosione di una mina, il padre posta con orgoglio la sua immagine mentre giace ferito in un letto di ospedale, sul suo profilo Facebook. «E’ ferito al petto, alla spalla, ai piedi, al polmone e allo stomaco – spiega per telefono a un amico – Era un bel colpo. Loro all’inizio non me l’hanno detto, poi mi hanno mandato una foto. E’ pieno di tubi nella bocca, nel polmone, nello stomaco, però ho messo la sua foto su Facebook, hai visto?». Alcuni mesi dopo, nel luglio del 2015, parlando con un ex compagno d’armi in Bosnia il padre elogia la scelta del figlio mujahidin che se fosse rimasto in Italia si sarebbe quasi sicuramente perso, come l’altro figlio definito «cane» perché aveva scelto di convivere con un’italiana. «Se fosse rimasto qua sarebbe stato lo stesso film – spiega il padre all’amico – Non voglio dirti bugie, significa perdita nella perdita. No! Questa scelta di Sayed ha un guadagno di un milione per cento. Uno è andato, il secondo è un guadagno se Dio vuole. Prego Dio di metterlo nel libro delle mie buone azioni».