Brescia, 15 settembre 2015 - «Non siamo dei mostri. Quindici anni fa tutta la nostra famiglia è finita sui giornali, con accuse atroci. In sei siamo stati assolti, a differenza di mio fratello, ma quell’incubo non è finito nemmeno per noi. Se ci sarà un nuovo processo e sarà ristabilita la verità, allora sì che potremo urlarlo ancora di più: non siamo mostri». A parlare è la sorella dell’uomo condannato per abusi sessuali compiuti nei primi anni Duemila sui figlioletti, Michele di 9 anni e Piergabriele di 12, che però ora, a 21 e 24 anni, raccontano un’altra storia: «Le accuse erano tutte invenzioni dettate da nostra madre, perché eravamo stati affidati a nostro padre». Rita è al fianco dei nipoti, in una battaglia difficile per far uscire di cella il fratello Saverio che, dal luglio scorso, è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sassari.
L’uomo, un autotrasportatore di 46 anni, deve scontare una pena di nove anni e due mesi di reclusione: dopo la condanna in primo e secondo grado, anche la Cassazione ha sentenziato una verità processuale che, secondo i familiari e il nuovo legale difensore, Massimiliano Battagliola, «non è la verità storica». L’incubo è iniziato nel 2001 a Brescia dove il fratello, di origini sarde, si era trasferito con moglie e bambini. La coppia si separa e la donna lancia le sue accuse non solo nei confronti del marito, ma anche dei suoi familiari, per abusi su 5 minorenni, i due figlioletti e tre nipoti. In sei escono di scena già in primo grado: le presunte violenze non hanno riscontri. Non Saverio. «Speravamo che anche lui ce la facesse, in Appello e in Cassazione - racconta Rita -. In tutti questi anni lui ha avuto una sola preoccupazione: rivedere i bambini. Nessuno di noi poteva, ci era stato impedito».
Saverio ci riuscirà, non appena i figli diventano maggiorenni. «Io e mio fratello eravamo stati mandati in due comunità diverse - racconta Piergabriele, che oggi fa il grafico -. A diciott’anni sono tornato da mia madre, che spesso mi cacciava di casa: sono stato ospite nel convitto dove studiavo e da amici, senza fare mai vacanze pur di lavorare. Un giorno me ne sono andato via io: per un mese e mezzo ho dormito su una panchina». Poi l’incontro con il papà, che non vedeva da quasi dieci anni: «Mi ha cercato su Facebook, mi ha scritto “mi sembri mio figlio, gli somigli, sei tu?”. Gli ho risposto subito, ero emozionato. Sono andato a stare da lui e poi mio fratello ha fatto lo stesso». Il carcere ha portato di nuovo via il papà. Per loro una doppia sofferenza, fatta di dolore e sensi di colpa: «Già in comunità avevo scritto un memoriale per dire che quelle accuse erano inventate, ma nessuno mi ha creduto - dice Piergabriele -. Speriamo nella revisione del processo».