"Gli abusi sessuali erano menzogne. Non siamo una famiglia di mostri"

Parla la sorella dell’uomo condannato a 9 anni per violenza sui suoi bimbi di Patrizia Longo

Piergabriele quando scattarono le denunce aveva dodici anni. Con la maggiore età uscì dalla comunità cui era stato affidato tornò dalla madre che spesso lo cacciava di casa. Ospite di un convitto poi di amici arrivò a dormire per un mese e mezzo su una panchina Tramite Facebook ha ripreso - come il fratello minore - contatti col padre

Piergabriele quando scattarono le denunce aveva dodici anni. Con la maggiore età uscì dalla comunità cui era stato affidato tornò dalla madre che spesso lo cacciava di casa. Ospite di un convitto poi di amici arrivò a dormire per un mese e mezzo su una panchina Tramite Facebook ha ripreso - come il fratello minore - contatti col padre

Brescia, 15 settembre 2015 - «Non siamo dei mostri. Quindici anni fa tutta la nostra famiglia è finita sui giornali, con accuse atroci. In sei siamo stati assolti, a differenza di mio fratello, ma quell’incubo non è finito nemmeno per noi. Se ci sarà un nuovo processo e sarà ristabilita la verità, allora sì che potremo urlarlo ancora di più: non siamo mostri». A parlare è la sorella dell’uomo condannato per abusi sessuali compiuti nei primi anni Duemila sui figlioletti, Michele di 9 anni e Piergabriele di 12, che però ora, a 21 e 24 anni, raccontano un’altra storia: «Le accuse erano tutte invenzioni dettate da nostra madre, perché eravamo stati affidati a nostro padre». Rita è al fianco dei nipoti, in una battaglia difficile per far uscire di cella il fratello Saverio che, dal luglio scorso, è rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Sassari.

L’uomo, un autotrasportatore di 46 anni, deve scontare una pena di nove anni e due mesi di reclusione: dopo la condanna in primo e secondo grado, anche la Cassazione ha sentenziato una verità processuale che, secondo i familiari e il nuovo legale difensore, Massimiliano Battagliola, «non è la verità storica». L’incubo è iniziato nel 2001 a Brescia dove il fratello, di origini sarde, si era trasferito con moglie e bambini. La coppia si separa e la donna lancia le sue accuse non solo nei confronti del marito, ma anche dei suoi familiari, per abusi su 5 minorenni, i due figlioletti e tre nipoti. In sei escono di scena già in primo grado: le presunte violenze non hanno riscontri. Non Saverio. «Speravamo che anche lui ce la facesse, in Appello e in Cassazione - racconta Rita -. In tutti questi anni lui ha avuto una sola preoccupazione: rivedere i bambini. Nessuno di noi poteva, ci era stato impedito».

Saverio ci riuscirà, non appena i figli diventano maggiorenni. «Io e mio fratello eravamo stati mandati in due comunità diverse - racconta Piergabriele, che oggi fa il grafico -. A diciott’anni sono tornato da mia madre, che spesso mi cacciava di casa: sono stato ospite nel convitto dove studiavo e da amici, senza fare mai vacanze pur di lavorare. Un giorno me ne sono andato via io: per un mese e mezzo ho dormito su una panchina». Poi l’incontro con il papà, che non vedeva da quasi dieci anni: «Mi ha cercato su Facebook, mi ha scritto “mi sembri mio figlio, gli somigli, sei tu?”. Gli ho risposto subito, ero emozionato. Sono andato a stare da lui e poi mio fratello ha fatto lo stesso». Il carcere ha portato di nuovo via il papà. Per loro una doppia sofferenza, fatta di dolore e sensi di colpa: «Già in comunità avevo scritto un memoriale per dire che quelle accuse erano inventate, ma nessuno mi ha creduto - dice Piergabriele -. Speriamo nella revisione del processo».