Delitto Macchi, giallo sulla lettera della svolta

È la prova regina che inchiodò Binda. Ma un avvocato avverte: l’ha scritta un mio cliente

Lidia Macchi, la giovane uccisa nel 1987

Lidia Macchi, la giovane uccisa nel 1987

Milano, 19 luglio 2019 - «Ho saputo che quella lettera era un elemento dell’accusa contro Binda. Il segreto mi stava lacerando l’anima. Ho scritto io la lettera In morte di un’amica». Nella deposizione attesissima dell’avvocato Piergiorgio Vittorini, al processo d’appello per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa di Varese, non ancora ventunenne massacrata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987, si riportano le parole del presunto autore dell’epistola chiave del processo. La prosa anonima e poetica In morte di un’amica viene recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio, poche ore prima dei funerali di Lidia. Viene subito attribuita all’assassino. È uno degli assi portanti, la prova fondante, della condanna all’ergastolo di Stefano Binda, per tre anni compagno di liceo classico di Lidia e come lei militante di Comunione e Liberazione. Binda ne ha sempre negato la paternità, la perizia l’attribuisce invece alla sua mano. 

La deposizione di Vittorini è il ‘cuore’ di un’udienza lunga e spigolosa che nel finale riserva una deflagrazione con l’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la madre e i due fratelli della Macchi, che ricusa il collegio giudicante. L’avvocato Vittorini non ha mai visto l’uomo che gli si presenta in studio in un giorno fra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 2017 e che rivedrà ancora una volta. Riserbo assoluto sul nome, segreto professionale. È «un signore di alto livello professionale», laureato, cattolico, ha famiglia, figli. Non conosceva la famiglia Macchi e non conosceva Lidia, con cui «condivideva la scelta religiosa di Comunione e Liberazione». «Se lei è l’omicida esigo che me lo dica», premette l’avvocato. No. La sera del delitto non era a Varese, ma «in questa città» (Milano?). Però non disponeva di riscontri, era privo di alibi e per questo non si era presentato alla polizia. «Mi ha chiesto se potevo essere il suo legale e se quanto mi rivelava sarebbe stato tutelato dal segreto professionale. Lo spingeva un dovere morale. Era seriamente preoccupato perché la lettera veniva attribuita a Binda. Aveva seri problemi di coscienza, visto che l’autore della lettera era lui. L’aveva scritta perché riteneva che fosse la maniera più corretta per manifestare il suo cordoglio ai familiari».  Dopo essersi consultato con il presidente dell’Ordine degli avvocati di Brescia, Vittorini ha informato il presidente del tribunale di Varese (dove si sarebbe tenuto il processo di I grado), il presidente dell’Assise, la procura generale, i difensori di Stefano Binda. Immediata l’offensiva dell’accusa e della parte civile. La presidente della prima Corte d’Assise d’appello, Ivana Caputo, aggiorna il dibattimento al 24 luglio per la discussione e forse la sentenza, quando ecco il coup de théâtre della parte civile. L’avvocato Pizzi propone istanza di ricusazione della Corte. «Si ritiene – scandisce – il collegio assolutamente prevenuto di fronte a qualunque eccezione proposta dalla parte civile. Fin dalla prima udienza si è vista una manifesta anticipazione di giudizio».