Varese: Lidia Macchi è senza giustizia da 34 anni

La mattina del 7 gennaio 1987 la scoperta del cadavere della studentessa. Lo trovarono due amici nei boschi vicino a Cittiglio

Un intenso primo piano di Lidia Macchi, uccisa nel gennaio del 1987 all’età di 21 anni

Un intenso primo piano di Lidia Macchi, uccisa nel gennaio del 1987 all’età di 21 anni

Varese, 7 gennaio 2021 - La mattina del 7 gennaio 1987 una trentina di ragazzi sono raccolti davanti all’abitazione della famiglia Macchi, in via Ciro Menotti. I ragazzi di Comunione e Liberazione si sono mobilitati per ritrovare una di loro.

Si chiama Lidia Macchi, non ha ancora ventun anni, è iscritta al secondo anno di Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. È capo scout, impegnata in CL, in contatto epistolare con il fondatore don Luigi Giussani. Manca da casa dalla sera del 5 gennaio. È stata in ospedale a Cittiglio a trovare Paola Bonari, amica e compagna di appartamento a Milano, ricoverata dopo un incidente stradale. Ha l’auto in riparazione, il papà le ha prestato la sua Panda verde. Gli amici avviano le ricerche. Sono Roberto Bechis e Maria Pia Telmon a scoprire l’auto attorno alle 10, in un bosco alla periferia di Cittiglio, su una collinetta chiamata Sass Pinì, a poche centinaia di metri dall’ospedale. La stradina deserta e sterrata finisce in una cava.

È una landa desolata, frequentata da tossici e prostitute. Maria Pia vorrebbe correre a vedere, l’altro la trattiene. Il corpo di Lidia è disteso accanto all’auto. Coperto da un cartone. Martoriato da colpi di coltello sferrati con furia, se ne conteranno ventinove. Il viso rivolto a terra, i pugni stretti al petto. Contrariamente alle abitudini della morta i pantaloni alla zuava sono infilati negli stivaletti. I collant sono indossati al rovescio. Attorno poco sangue. Due piccole macchie sul sedile del passeggero, una sulla parte posteriore dei pantaloni. Chi ha ucciso Lidia Macchi? Trentaquattro anni dopo sono le giornate del ricordo, in attesa di quello che potrebbe essere il finale di partita, il 27 gennaio, davanti alla Cassazione. Gli ermellini dovranno decidere se confermare l’assoluzione piena di Stefano Binda.

Trentaquattro anni di inutile rincorsa alla verità. Indagini senza esito. A seguire anni silenti. Reperti distrutti o spariti nel nulla. Un sussulto nel gennaio 2016 con l’arresto di Stefano Binda, quasi cinquantenne di Brebbia, dove vive con la madre, la sorella, il nipote. Ragazzo di intelligenza sfavillante, laurea in Filosofia, un passato segnato dalla droga, Binda è stato per due anni compagno di Lidia al liceo classico e come lei militante di CL. Finisce in carcere con l’accusa di essere il brutale assassino. Processi. Polemiche. Veleni. Il 24 aprile 2018 la Corte d’Assise di Varese condanna Binda all’ergastolo. Nel luglio 2019 si va davanti alla prima Corte d’Assise d’appello di Milano. L’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la madre e i due fratelli di Lidia, chiede la ricusazione dei giudici. Istanza non accolta. Il 24 luglio Stefano Binda è assolto con formula piena per non avere commesso il fatto. L’uomo di Brebbia torna libero dopo tre anni e mezzo. Un grande successo per i difensori Patrizia Esposito e Sergio Martelli.

Un’assoluzione che il consigliere relatore Franca Anelli motiva in 262 pagine irte di giudizi severi. Come quello di una ricostruzione del delitto "non sorretta da alcun riscontro probatorio, tanto da dover essere colmata, nei suoi vistosi voli pindarici, con ragionamenti ipotetici e dettagli non fattuali". Nel suo ricorso il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi saetta contro un "processo ingiusto, unidirezionalmente impostato e monocraticamente condotto". Presentano ricorso (ha fini solo civilistici) anche i legali della famiglia Macchi. Ultimo capitolo di una storia infinita. Forse.