Gianmarco Pozzecco: bestemmie, amori vip e lacrime. Chi è il "folle" coach dell'Italbasket

Oggi i quarti di finale dell'Europeo contro la Francia. Ritratto del Ct della nazionale di basket alla vigilia del suo cinquantesimo compleanno

Gianmarco Pozzecco festeggia la vittoria dell'Italia contro la Serbia

Gianmarco Pozzecco festeggia la vittoria dell'Italia contro la Serbia

Domani Gianmarco Pozzecco, coach della nazionale azzurra, eterno irregolare dello sport italiano, compie 50 anni, che adesso dicono siano i nuovi trenta, mentre fino a un po’ di tempo fa erano l’età della ragione. Di sicuro non per lui. "Una volta - racconta nella sua autobiografia “Clamoroso. La mia vita da immarcabile” - dissi a un amico: ‘Vorrei essere ancora più folle di quello che sono. La sua risposta non l’ho mai dimenticata: 'Tranquillo, Gianmarco, più di così è impossibile’".

Per personaggi come lui di solito si usa l’espressione genio e sregolatezza, ma forse è più appropriato il verso della canzone di Vasco: "È tutto un equilibrio sopra la follia". Perché il Poz un po’ folle lo è davvero: tanto forte e imprevedibile sul parquet, quanto sopra le righe e anarchico nella vita. Spettacolo sportivo esaltante tra i tabelloni e, adesso che è allenatore, spettacolo "emotivo" altrettanto avvincente a bordo campo.

Negli ottavi di finale dell’Europeo, contro la strafavorita Serbia della stella Nba Nikola Jokic, il Poz ha fatto un po’ di tutto: ha gridato, ha protestato, si è beccato due tecnici, l’espulsione (dagli arbitri, certo, ma anche da capitan Nic Melli che, dopo la decisione arbitrale, lo ha letteralmente cacciato dal campo per evitare altri guai), ha pianto e infine ha festeggiato senza freni. Nel corridoio che porta agli spogliatoi è persino saltato in braccio a Giannis Antetokounmpo gridandogli “I love you!”.

Pozzecco, del resto, è fatto così: un’altalena vivente di emozioni. Senza maschere. Senza nascondere niente. Senza nascondersi. "Non c’è stata una domenica sera in cui io non abbia fatto l’alba con un drink in mano. Spesso molto tegolo, o meglio, come diciamo noi, tegolo duro. Chissà quanti di voi mi hanno visto all’Hollywood a Milano con due bicchieri in mano e la sigaretta in bocca", scrive il Poz nella sua autobiografia. Il fatto è che "tegolo duro", in realtà, lo è sembrato spesso anche lontano dall’Hollywood. Da giocatore, in campo e negli spogliatoi (le leggende sui suoi scherzi nella Varese della stella si sprecano) e da allenatore, in panchina e nelle sale stampa.

Classe 1972, goriziano di nascita ma triestino d’adozione, figlio di un ex cestista passato anche dalla Robur et Fides di Varese e di una casalinga, il Poz ha iniziato col basket a 4 anni, quando ancora non aveva l’età per farlo ma voleva a tutti i costi imitare – e battere – suo fratello maggiore Gianluca. E pallacanestro è stata nonostante l’altezza e la struttura fisica, non proprio da gigante (“Dio mi ha messo al mondo con un fisico veramente di merda!”, dice nell’autobiografia).

Ha fatto tutta la trafila del basket giovanile e delle serie minori in Friuli, sbarcando in serie A nel 1994 con Varese, appena risalita dopo due stagioni in A2. È qui che è diventato la Mosca Atomica, protagonista assoluto dello scudetto della stella nel 1999. A Varese, ma non solo, in tanti hanno ancora chiara in testa l’immagine di Pozzecco che si presenta in campo per la decisiva gara-3 di quella cavalcata scudetto con un’improbabile capigliatura rosso-fucsia (che, tra l’altro, non gli impedì di mettere a referto 15 punti).

Dopo Varese, lasciata nel 2002, sono state ancora montagne russe: Bologna (sponda Fortitudo), poi la Russia, la Spagna e ancora Italia, ripartendo da Capo D’Orlando. Un girovagare, inseguendo la sua incontenibile personalità, segnato ogni volta da qualche "pozzeccata", come la lavagnetta strappata di mano a coach Repesa durante il time-out di Avellino-Bologna con le parole "E basta con queste cazzate!".

In mezzo alle squadre di club, naturalmente, la Nazionale: anche qui con rapporti altalenanti (diciamo così…) con gli allenatori. Escluso da Tanjevic nella squadra campione d’Europa nel 1999, convocato da Recalcati per gli Europei del 2003, salvo poi essere cacciato dal ritiro di Bormio per una fuga notturna non autorizzata con il pulmino azzurro. Infine, ripescato ancora dallo stesso Recalcati per la spedizione olimpica del 2004, chiusa con uno storico argento e un Pozzecco grande protagonista (17 punti) della semifinale vinta contro i favoritissimi lituani.

Poi la nuova, choccante, avventura da allenatore: un po’ come se Gianburrasca decidesse di diventare maestro delle elementari. Eppure, contro ogni pronostico, anche da allenatore il Poz ha fatto sfracelli, in tutti i sensi naturalmente. Con i risultati, portando le cenerentole Capo d’Orlando prima e Sassari ad alto livello e la Nazionale a un insperato quarto di finale europeo, ma anche con gli "extra": camicia stracciata davanti ai tifosi stile Hulk dopo il successo in Europe Cup (com’era già successo nel derby Varese-Milano qualche anno prima), conferenze stampa furibonde, sceneggiate a bordo campo, fino all’epico - per gli amanti del genere - time out della partita di Champions tra Sassari e Bakken Bears, con l’invenzione di una sorta di grammelot anglo-sacrilego infarcito di bestemmie, che gli è costato multa, polemiche e, in qualche misura, anche il posto.

E questo solo per quanto riguarda lo sport. Perché poi c’è stata la tv, i gossip, gli amori da copertina con Samantha De Grenet e Maurizia Cacciatori, che lo lasciò a pochi giorni dalle nozze. La vita e il divertimento a Formentera, dove ha casa e l’anno scorso ha sposato la sua compagna spagnola Tanya in un matrimonio con solo 10 invitati. E dove pare giri per l’isola - o meglio, per i suoi locali - su una Méhari verde.

Perché, come si dice, di mettere la testa a posto, il Poz non ne vuole ancora sapere, anche a 50 anni suonati. Basta vedere le ultime prestazioni in panchina durante l’Europeo. "Io la pallacanestro l’ho amata per davvero, e per sempre l’amerò - dice nella sua autobiografia - L’ho respirata a pieni polmoni fin da quando me ne andavo al campetto del ricreatorio Umberto Saba, nel rione di casa mia, a Chiarbola, palleggiando per tutto il tragitto con un pallone che era già più grande di me, ed ero talmente emozionato, per quel gioco che mi avrebbe impegnato tutto il pomeriggio, che sentivo qualcosa di strano che mi faceva l’ascensore nello stomaco". Si chiama amore, Poz, e come sanno tutti, fa fare grandi, grandissime, stupidate.