Marco Tullio Giordana: "L’unica militanza possibile oggi è per l’ambiente"

Il regista, il rapporto di amore e odio per la sua Milano, gli Anni di Piombo

Marco Tullio Giordana: "L’unica militanza possibile oggi è per l’ambiente"

Marco Tullio Giordana: "L’unica militanza possibile oggi è per l’ambiente"

Nel cinema di Marco Tullio Giordana, al lavoro sul nuovo film “La vita accanto“, troviamo i passaggi cruciali, le domande e le oscurità, della nostra storia: Piazza Fontana ("Romanzo di una strage"), militanze e terrorismo ("La meglio gioventù"), la strategia mafiosa ("I cento passi"), l’immigrazione ("Quando sei nato non puoi più nasconderti"), e "Pasolini, un delitto italiano", "Yara": l’impegno e la precisione di Francesco Rosi, ma siamo sempre in un movimento di personaggi, emozioni, conflitti e “musicalità“ del filmare, per quanto il cinema venga anche dal melodramma.

Pare che il giorno più importante della sua vita, a 20 anni, non fu a Milano. Com’è andata?

"Volevo fare il pittore. Non pensavo al cinema. Da bambino avevo un talento precoce, ma poi non ho fatto studi, non sono andato all’Accademia di Brera, come mi sarebbe piaciuto per l’atmosfera divertente, come si diceva nei licei a Milano. Dipingevo un po’ così, ero però un bravo disegnatore. Nel ‘72 andai a Parigi per la prima grande retrospettiva di Francis Bacon, che amavo tantissimo. Tornando dal Grand Palais ero tristissimo. Pensavo: ha già fatto tutto lui, mi butto nella Senna".

E invece?

"Invece passando dal Ponte di Passy con i peggiori propositi vedo una troupe e dico: ma quello è Marlon Brando!".

Fine del proposito suicida.

"Sì, mi sono avvicinato, parlavano in italiano e mi sono nascosto a spiare: era il set di ‘Ultimo tango a Parigi, in realtà la prima sequenza del film. C’era Bertolucci, a cui poi ho raccontato tutto. E non dimenticherò mai che ho pensato: col cinema non sei solo, al contrario della pittura se hai una brutta crisi ci sono cento persone che ti vengono in soccorso. Lì qualcosa di definitivo è successo".

Ma il cinema si fa a Roma...

"Lasciai la città, e via!"

Tornò per raccontare la fine dell’utopia, il terrorismo, la Milano della polizia fascista. "Con ‘Maledetti vi amero’, ‘La caduta degli angeli ribelli’ e ‘Notte e nebbia’ non ho mai pensato di fare ritratti sociologici o politici della città. Certo, non dico fosse solo una location. Io la sentivo, era la mia città. L’amavo e la detestavo, un po’ come ogni figlio ribelle".

Perché la detestava?

"Non era colpa di Milano in generale. Mi respingeva quel clima così cupo innescato dalla violenza politica, dalle stragi e il clima deteriorato della protesta giovanile, che nella mia visione era qualcosa di più solare: io non pensavo che alla violenza si doveva ribattere con altrettanta violenza. Amavo l’arte, che non interessava ai movimenti. Doveva essere tutto politico".

Nel suo destino c’era il film su Piazza Fontana...

"Sono stato un testimone oculare. Ero in tram verso via Larga, stavo andando in università e abbiamo sentito l’esplosione. C’era questo alveare oscuro di fumo, le ambulanze e la piazza impazzita, la gente che diceva: è una caldaia. Uno poi uno ha detto: “Ma che caldaia, questa è una bomba“. Non dimenticherò mai la scena sul tram, l’ho messa nel film".

Quale scena?

"Sui tram c’era il bigliettaio in fondo. Molti biglietti li tenevano già pronti, staccati, per non doversi leccare il dito ogni volta. Allo scoppio volarono via tutti, cessò di colpo la corrente, la ressa, il buio... Io poi l’ho reso al rallentatore in funzione drammatica".

Anche la cronaca della violenza sulle donne incontra i suoi film, nel caso di "Nome di donna".

"È un segno dell’impazzimento generale e della perdita totale dell’autocontrollo delle persone. Società, scuola e famiglia, i genitori, non riescono a garantire educazione e civiltà. Gli animali uccidono per procurarsi il cibo... Mi chiedo quanto tempo è passato perché ci accorgessimo di fatti che sono sempre successi. E penso ai bambini, che restano senza genitori, anche questo è tragico".

Come andò col suo cortometraggio sui bimbi in Ucraina? "L’anno scorso, un lavoro su commissione sul conflitto. Dissi che accettavo se potevo fare un discorso preciso contro la guerra, e pensai ai bambini, solo loro protagonisti. I bambini affrontano tutto, anche la guerra, subendo e senza capire le ragioni mentre manifestano sempre un bisogno di vita, anche di gioco nel disastro, un paradosso per gli adulti".

C’è una adolescente in difficoltà anche nel nuovo film. "Sì, mi appassiona il rito di passaggio, la crescita, capire improvvisamente qualcosa di più della vita, decifrare le regole, la ‘ratio’ di quel che ti succede. ‘La vita accanto’ è un romanzo bellissimo di Maria Pia Veladiano. E in più riguarda la musica, la ragazzina è una pianista, per me un invito a nozze. Mi ricorda ‘La meglio gioventù’, che ho rivisto poco fa dopo tanti anni col pubblico a Roma. Mi sembrano fatti con lo stesso inchiostro".

E che effetto le ha fatto rivederlo?

"Mi aspettavo un pubblico di vecchioni, come me, invece c’erano soprattutto giovani. Una cosa mi ha commosso molto: la sensibilità degli attori nel trasmettere la sofferenza e la capacità di tenerla sotto controllo, Gifuni, LoCascio, tutti".

Quali sono le “militanze“ oggi, anche per la città?

"Forse l’unica possibile oggi è quella in difesa della natura. Per me è così, e non mi sento più di appartenere ad alcuna famiglia. Ricordo negli anni ‘70 come sbuffavano a questi discorsi i gruppi della sinistra. Che errore. Quando la ferita all’ambiente diventa irreversibile, questo è il punto fondamentale".