Lo spettro dell’inquietudine. Berardi, Ulisse fuori tempo: "Il mio colpo di fulmine al lido"

Manuale di istruzioni nella società basata sulla religione della performance "Mai ricevute così tante richieste di lavoro, da disabile sono utile. Ma sono artista".

Lo spettro dell’inquietudine. Berardi, Ulisse fuori tempo: "Il mio colpo di fulmine al lido"

Lo spettro dell’inquietudine. Berardi, Ulisse fuori tempo: "Il mio colpo di fulmine al lido"

Ha qualcosa dell’enfant terrible, Gianfranco Berardi. Tutto talento e spigoli e irrequietezza. Gli occhi ciechi non gli hanno impedito di vincere un po’ tutto in questi vent’anni di teatro, compreso l’Ubu come miglior interprete. Al suo fianco sempre Gabriella Casolari. E anche questa volta firmano insieme "LidOdissea", da giovedì al 3 dicembre al Litta per la stagione di MTM. Un Omero in braghette. Perso dentro uno stabilimento balneare. Con BerardiCasolari affiancati in scena da Ludovico D’Agostino e Silvia Zaru, anche lei attrice non vedente.

Gianfranco, chi è il tuo Ulisse?

"Un uomo alla ricerca, a disagio di fronte a un mondo che non riconosce e che vive attraverso gli altri. Ulisse non è a ritmo con il proprio tempo e credo che sia una condizione in cui è facile ritrovarsi, ad ogni età".

Perché ambientarlo in un lido?

"Ci è sembrata la metafora ideale di molte riflessioni che stiamo facendo. E in qualche modo ci sono finito letteralmente addosso, visto che tutto nasce un giorno in spiaggia a Cavi di Lavagna quando mi sono schiantato contro la cabina".

Un’illuminazione?

"Ma sì, Gabriella si scusava di avermi aperto la porta in faccia e io invece la ringraziavo. Perché stavo giusto pensando a quale luogo avrebbe potuto accogliere lo spettacolo e in quel momento ho capito che il lido rappresentava le contraddizioni del presente. Si percepisce ad esempio una sorta di rigido ordine, in cui l’organizzazione degli spazi rende identico ogni paesaggio; ma, allo stesso tempo, sei pronto alla battaglia selvaggia per un pezzo di asciugamano. E poi in mutande si respira uno strambo egualitarismo, si parla delle stesse cazzate".

Un luogo alienante?

"Sì, in cui tendi a sopportare la confusione per cedere all’idea di essere felice. Il lido ci ha offerto pure l’opportunità di aprire alla nostra ironia, che non ho ancora capito se è una forma di viltà o di accogliente ferocia".

Anche la cecità è di nuovo metafora esistenziale?

"Molto poco, non volevamo eccedere. C’è l’immagine di un mondo non compreso, perché osservato ma non visto. Ma solo l’episodio di Polifemo va a toccare il tema, unendo la finzione con la mia autobiografia, il racconto di come ho perso la vista".

Che periodo è per il vostro teatro?

"Lavoriamo molto e questo ci fa piacere. Ma trovo che in giro ci sia smarrimento. In tanti stanno cercando il proprio posto, anche a scapito dei fratelli. Il palcoscenico mostra il suo lato più crudo, accogliendo una grande tragicommedia".

Cosa intendi?

"Non ho mai ricevuto così tante richieste di collaborazione, perché come disabile risulto utile per rispondere ai bandi sull’inclusione, parola sempre più vuota di significato. C’è quindi da domandarsi quanto oggi gli artisti cerchino finanziamenti per poi creare liberi quello che hanno in testa; o se al contrario tendano ormai a progettare già con l’idea di cosa potrebbe permettergli di vincere un premio o agguantare un bando. Due idee molto diverse di teatro".