ELVIO GIUDICI
Teatri

Verdi e La forza del destino: un'opera tra politica e musica

Nel 1861 Verdi, tra politica e musica, lavora a La forza del destino, un'opera che sfida il suo credo artistico.

Nel 1861 Verdi, tra politica e musica, lavora a La forza del destino, un'opera che sfida il suo credo artistico.

Nel 1861 Verdi, tra politica e musica, lavora a La forza del destino, un'opera che sfida il suo credo artistico.

Nel 1861 Verdi, che con 23 opere all’attivo – l’ultima è il Ballo in maschera – è il protagonista più autorevole e rappresentato del teatro musicale europeo, è affaccendato in faccende che con la musica hanno poco o punto a che fare: di conserva ai massicci lavori di ampliamento della sua villa di Sant’Agata, è difatti pressato personalmente da Cavour (la lettera in cui Verdi descrive il suo incontro con lui, in un’alba gelida torinese, dovrebbe far parte delle antologie scolastiche), al fine di eleggerlo deputato nel primo Parlamento dell’Italia unita, a Torino perché Roma era ancora sotto il Papa, l’ultrareazionario ancorché santo Pio IX.

E tuttavia, l’invito del celebre tenore Enrico Tamberlick - per conto del direttore dei teatri imperiali russi Sabouroff – di scrivere un’opera nuova per San Pietroburgo non lo lasciò indifferente, non foss’altro che per l’enormità della cifra, davvero imperiale, proposta come compenso.

Sono bellissime, le lettere che Verdi scrive in quel periodo: dove si mescolano vetrioliche descrizioni delle sedute alla Camera con le ricerche del soggetto da musicare. Torna in campo uno dei due progetti che Verdi sognava di trattare, Ruy Blas di Victor Hugo (l’altro fu lo shakespeariano Re Lear), ovviamente respinto senza appello dalla censura: sempre sovranamente privo di tatto, Verdi, che propone addirittura a uno zar il soggetto d’un cameriere amante della regina e divenuto ministro.

Da qui, passando per diverse altre proposte (tra cui, interessantissima, quella di Cosima, primo romanzo dichiaratamente femminista, scritto da Amantine Dupin alias George Sand), Verdi si fissa su un dramma spagnolo, Don Álvaro, o la Fuerza del sino di Don Angel de Saavedra y Ramirez de Banqudano, Dukue de Rivas: un liberale spagnolo esule a Parigi in quanto fuggitivo dalla pena di morte – poi revocata - comminatagli dal re Ferdinando VII.

"Dramma potente, singolare e vastissimo: a me piace assai… Certo che è cosa fuori del comune": questa la definizione di Verdi, che avanza nel suo percorso di personalissima esperienza romantica principiata col primo incontro con l’Hugo di Ernani e proseguita musicando Byron, Schiller e la triplice, geniale reinvenzione di Shakespeare.

Quel "vastissimo" che l’aveva colpito sta alla radice dell’essere La forza del destino l’unico – e quindi meritevole di particolare attenzione – scostamento di Verdi dal suo credo artistico condensato nel reiteratissimo "brevità e sublimità" ordinato ai suoi librettisti. Struttura oltremodo divagante, invece: digressioni narrative dalle vicende dei protagonisti, salti temporali e spaziali rendono l’impianto narrativo un singolarissimo romanzo di cappa e spada a puntate, quello del "facciamo un passo indietro" e "nel mentre", concluso nel finale pietroburghese del 1862 da uno straordinario apice, con Alvaro che tra lampi e tuoni si getta in un burrone maledicendo Dio e gli uomini. Bellissimo, ma un filo passatista.

I tempi erano ormai cambiati, e la sensibilità di Verdi non poteva non avvertirlo. Lasciò quindi che l’opera viaggiasse in Italia e altrove, ma non alla Scala: lì – in aggiunta a molti e tutti importanti mutamenti testuali e musicali – la catarsi finale doveva essere più consona alla sensibilità di quegli anni. E passarono ben sette anni, prima di essere convinto da Antonio Ghislanzoni (nel frattempo il primo librettista, il fedele Piave, era morto) per un finale marcatamente manzoniano in cui Alvaro sopravvive in una luce di perdono assolutorio. La faticosissima ricerca delle parole giuste ("se le si trova, la musica viene da sé", ebbe a dire: già, ma solo se ci si chiama Verdi…) getta luce chiara sulla stella polare del gran teatro verdiano: teatro, teatro, ancora e sempre teatro che racconta fatti e quindi idee pienamente contemporanee, non importa sotto quali metafore in funzione di foglie di fico.