ELVIO GIUDICI
Teatri

Verdi e la critica musicologica: un'opera teatrale tra immaginario popolare e frammentarietà

L'opera di Verdi, criticata per la sua frammentarietà, esplora l'immaginario popolare sfidando le convenzioni musicologiche.

Giuseppe Verdi immortalato in una foto del 1897 in piazza della Scala a Milano

Giuseppe Verdi immortalato in una foto del 1897 in piazza della Scala a Milano

Titolo molto amato dal pubblico ma bersagliato da strali particolarmente velenosi dai musicologi. Cocciuto capo d’accusa è la sua frammentarietà, che faceva quindi definire l’opera nel migliore dei casi un prodotto artistico bicefalo. Perché ad alcune parti sublimi – segnatamente tutta la musica di Leonora e gran parte di quella di Alvaro – farebbero riscontro altre addirittura infime, infarcite di episodi non essenziali: soprattutto le tre scene di massa (al centro delle quali sta quella "orrida Preziosilla", come spesso i sussiegosi musicologi amano definirla), col loro folto stuolo di personaggi minori e minimi che allentano i fili del racconto in favore d’un colore locale meramente effettistico quando non francamente "volgare" (l’eterno e cretino marchio del zum-pa-pa che ritorna sotto non troppo mentite spoglie).

Volgarità e scarso senso del teatro, dunque, in un autore – per giunta al culmine della propria maturità – che ben pochi negano essere tra i massimi geni della teatralità in musica. Tesi indifendibile, a mio avviso. Nel senso che delle due l’una: sostenere la ben bizzarra teoria d’un Verdi improvvisamente incapace di organizzare un racconto teatralmente valido proprio nel periodo che da Un ballo in maschera va all’Aida; oppure ammettere che abbia ragione lui, e sia la critica musicologica a non accettare come valida l’angolatura attraverso la quale Verdi vuole si guardi a quest’opera.

Angolatura singolare, questo sì. Ma soprattutto, in netto contrasto con l’estetica generale che in campo musicologico restò vincente per lunghi anni. Ma qual è, tale angolatura? Di molto schematizzando, a me pare consistere nell’atmosfera particolarissima che pian piano si determina col rapsodico affastellarsi uno sull’altro (e non col compenetrarsi uno nell’altro) di moltissimi luoghi comuni dell’immaginario popolare, nel contesto d’un ambiente anch’esso modellato su tale immaginario. Sicché il dato storico di solito tanto determinante in Verdi, qui invece sfuma nel genericamente romanzesco che l’immaginario popolare attribuisce alla storia.

La guerra come parte quasi naturale del vivere civile, sì che l’accampamento militare con zingare, reclute, frati, balli, tamburi e quant’altro, diventa una sorta di succedaneo della piazza del paese durante la festa del santo patrono. La mensa per i poveri. Processioni misticheggianti, battaglie, duelli, ferite mortali eppur sempre sanate al contrario dell’anima viceversa sempre sofferente. L’espiazione in convento quando non addirittura in una grotta d’eremita tra fame e stenti. La fuga notturna di due amanti contrastati e sorpresi dal padre di lei: con quel "Vil seduttore, infame figlia" in grado d’esprimere il nocciolo di almeno tre quarti della letteratura popolare, ottocentesca e non. Quella, cioè, che la critica di solito definisce "romanzacci" o, come nel caso in questione, "drammaccio spagnolo". Da Verdi viceversa considerato "dramma potente, singolare, vastissimo; a me piace assai" (se mi si passa l’immodesto accostamento, piace assai anche a me).

Il tutto, organizzato in guisa di coloratissima, fantasiosissima successione di stampe popolari, simili a quelle davanti alle quali solevano affabulare – aiutandosi col canto e con uno strumento di dubbia intonazione suonato per lo più da loro stessi – i cantastorie sempre presenti nelle piazze principali dei paesi animati da occasioni festevoli, religiose e non. Oltremodo significativa, al riguardo, la sua viva preoccupazione – quasi più viva, addirittura, di quella manifestata nei confronti di Alvaro, Leonora o Carlo – di trovare gli interpreti adatti per Trabuco, Melitone e Preziosilla: avvertendo a ogni piè sospinto che tali parti esigevano artisti anziché "semplici" cantanti. Dunque non solo non tagliò tali “digressioni”, ma addirittura conferì loro rilievo massimo, con un’infinità di minimi ma geniali tocchi psicologici che perfettamente definiscono tali personaggi.

Ho un particolare debole, al riguardo, per la predica di Melitone, che alla massa di reclute, soldati, contadini, indirizza una frase in latino per colpevolizzarli ("Pro peccata vestra") con ben due erroracci, dato che pro non regge l’accusativo e non ha valore causale: esempio paradigmatico - nonché eterno nei secoli - della falsa cultura impiegata a tristo scopo intimidente. Scene quasi già cinematografiche, mi vien fatto di dire, in cui è come se un’altissima dolly lentamente alzasse una macchina da presa che fin qui aveva inquadrato solo due figure in primo piano: originandone un campo lungo sempre più brulicante di comparse, nel quale i personaggi centrali si dissolvono ma, segretamente, proiettano i loro casi privati nel gran teatro del mondo, celebrando il valore della realtà umana, così complesso e alto da assumere quasi una dimensione religiosa. L’unica, d’altronde, che Verdi abbia mai ammesso.