REDAZIONE POLITICA

Lo spirito repubblicano

Com'era bella la Repubblica quand’eravamo giovanissimi e non avevamo vissuto altro che i suoi inizi, la sua rivoluzionaria novità e le sue promesse di CLAUDIO MARTELLI

Com'era bella la Repubblica quand’eravamo giovanissimi e non avevamo vissuto altro che i suoi inizi, la sua rivoluzionaria novità e le sue promesse. Chi più chi meno sapevamo quale storia avesse alle spalle e quale prezzo di sofferenze e di conflitti nel popolo e tra le classi dirigenti fu pagato. Eravamo ideologicamente divisi – democristiani e laici, socialisti e comunisti – ma tutti convinti che la Repubblica e la democrazia fossero l’approdo giusto, naturale, necessario di una storia secolare e di una lunga lotta forgiate e maturate nella cultura e nell’arte delle diverse civiltà italiane ben prima del sorgere di una coscienza politica e della volontà politica di creare dai tanti staterelli uno stato. Sapevamo che prima della Repubblica c’era stato un Regno, un re d’Italia e un regime elitario e liberale che avevano tanti meriti verso la patria ma li sperperarono tutti consegnando la nazione al dittatore fascista. 

Sapevamo che quel regno unitario l’avevano alla fine conquistato il liberale Cavour, i soldati piemontesi e le camicie rosse di Garibaldi. Sapevamo che prima di loro migliaia di giovani italiani, almeno due generazioni di giovani, animarono, credettero e combatterono per il risorgimento della patria facendosi fucilare e impiccare, cadendo in battaglia, scegliendo l’esilio piuttosto che piegare la testa. In grande maggioranza quei giovani non erano monarchici, ma repubblicani come il loro maestro e la loro guida politica Giuseppe Mazzini. Prima di allora e per secoli l’Italia era stata solo sognata, agognata, pensata dai nostri poeti, dai nostri scrittori, ciascuno a suo modo tagliando o ricucendo i fili con l’antichità classica e con la Chiesa di Roma. Sapevamo chi erano i bardi costruttori della lingua e dell’identità italiana – Dante, Petrarca, Machiavelli, Alfieri, Foscolo, Leopardi – e perciò sapevamo chi eravamo noi stessi, figli di quella storia che portavamo con orgoglio fiduciosi nelle libertà pubbliche e nella democrazia pluralista. Anche le eredità più pesanti del passato a cominciare dal divario tra nord e sud con il gravame di plebi senza popolo e di una criminalità intollerabile ci siamo portati nella Repubblica

. E i segni di subalternità conseguenti alla divisione del mondo in blocchi contrapposti che certo sarebbero stati minori senza l’appartenenza del partito più grosso della sinistra al campo comunista egemonizzato dall’Urss. Questa scelta dei comunisti italiani non la volontà aprioristica di escluderli comportò che l’unica alternativa possibile fosse l’alternanza alla DC nella guida della Repubblica e dei governi costituita dai socialisti e dai laici. Una nazione ritrovata nel progresso economico e sociale, civile e culturale, un progresso senza paragoni col passato, questo è stata la prima Repubblica. Anche l’eredità e la responsabilità del debito pubblico non può essere disgiunta, in un giudizio storico equilibrato, dalla salvaguardia della pace sociale e dalla straordinaria crescita economica. Più grave mi sembra che un debito contratto in lire sia stato aggravato anziché ridotto con la nuova più forte e non svalutabile moneta unica e che ancora oggi si continui ad accrescerlo. Insieme con la pesantezza ideologica e la partitocrazia democratica erede del partito unico fascista il vero limite della prima Repubblica fu quello di non aver superato per tempo i limiti di un’economia mista a prevalenza pubblica. Così che le indispensabili privatizzazioni furono fatte tardi e troppe in una volta mentre ormai anche la politica si era privatizzata. Molti vizi del passato, a cominciare dalla corruzione e dal trasformismo, continuano a inquinare la vita pubblica, altri nuovi e peggiori si sono imposti negli ultimi venti anni e se ne intravedono di nuovissimi ancora peggiori. La fine dei partiti storici ha lasciato campo aperto ai partiti personali e alle improvvisazioni elettorali – terreno fertile per tutti i demagoghi. Siamo al punto che prima ancora di essere eletti alcuni candidati ad amministrare la cosa pubblica giurino obbedienza a capi non eletti pronti a dimettersi a un loro cenno o a seguito del comunicato di un’azienda privata in attesa che il compito sia assolto in automatico da un algoritmo. Eppure vi sono anche segni di ripresa e di speranza nella gioventù che non si arrende e studia e lavora e si migliora, negli adulti e nei più anziani che sanno e vogliono rendersi utili alla loro comunità. Bisogna aprire le strade al merito nella concorrenza trasparente, bisogna emancipare il bisogno non coltivarlo nell’assistenzialismo.

di CLAUDIO MARTELLI