BARBARA CALDEROLA
Economia

Brugola, dal dizionario al futuro: Cina nel mirino e la sfida dell’elettrico

L’azienda di Lissone – il cui nome è diventata una parola del vocabolario italiano – vuole conquistare il mercato dell’Oriente. Il presidente Jody Brugola indica l’unico pericolo: “Stop alle incertezze nell’automotive”

Un operaio al lavoro nello stabilimento di Lissone

Un operaio al lavoro nello stabilimento di Lissone

Lissone, 23 febbraio 2025 – Le viti brianzole sono pronte a conquistare i cinesi. I commerciali della Brugola sono in Asia a cercare nuovi clienti. Un prodotto che nessuno, neppure loro, si azzarda a copiare. Questa creazione “made in Italy”, nata a Lissone nel 1926, a volte tanto minuscola da pesare 6 grammi, finisce nelle auto di tutto il mondo: una su quattro, per l’esattezza.

I primi a servirsene sono stati i Ford, seguiti da tante altre firme del settore: Bugatti, Nissan, Bmw, Audi, Mercedes, Renault, Nissan, Volkswagen, Kia. “La sfida dell’elettrico non ci spaventa”, dice il presidente Jody Brugola, terza generazione al comando dell’azienda con cinque poli produttivi in città, una logistica a Desio e altri undici centri di movimento merci nel mondo fino in India, uno stabilimento in Michigan, più di 500 dipendenti con un fatturato di 186 milioni (189 l’anno scorso) e l’obiettivo di sfondare il tetto dei 200.

“A patto che si superi l’incertezza sull’automotive – spiega il presidente – è questo il vero problema oggi. La gente è disorientata: non capisce cosa deve acquistare e nel dubbio non compra più nulla. Senza questa situazione il nostro portafoglio ordini segnerebbe un 20% in più”.

La filiera completa

Lo stallo si riflette su tutta la filiera del comparto auto e i problemi di tenuta sono concreti per uno dei pezzi di pregio dell’industria lombarda e italiana. Dalle linee Brugola escono ogni giorno 9 milioni di viti, 80mila tonnellate l’anno, per un totale di quasi mille diversi particolari a catalogo. E ciascuno è frutto “di un progetto tagliato su misura per il cliente”. È uno dei grandi cambiamenti consolidati nel tempo.

Una volta i costruttori arrivavano qui con un disegno finito, oggi nasce tutto da zero nel cuore creativo del Gruppo: ricerca e sviluppo sono una risorsa essenziale. Poi, si passa alla produzione. Comincia tutto con un filo metallico, enormi matasse vengono trasportate dai muletti alla sabbiatura, quindi allo stampaggio a freddo “la tecnica che in 99 anni di storia ha fatto la differenza”.

In reparto c’è anche la linea per il trattamento termico più lunga d’Europa con le viti che entrano in forni che raggiungono una temperatura che sfiora i mille gradi fino al processo per il difetto zero di cui Brugola è stata la prima sostenitrice nel mondo. L’ultimo passaggio della catena è il controllo di ogni singolo pezzo, quelli che non rispettano gli standard vengono scartati.

Una storia di successo

Qualità è la parola d’ordine del colosso che punta sul rapporto con il territorio in ossequio alle proprie radici. In estate sarà pronta la nuova sede con piazza e via dedicate ai fondatori. E grazie al loro genio la Brugola è finita anche nel dizionario di Italiano. Il termine indica la vite cava esagonale nata dall’inventiva di Egidio, che fra le due guerre creò Oeb, Officine Egidio Brugola, e nel 1946 ottenne il brevetto per il prodotto conosciuto nel mondo con il suo cognome.

Dopo la sua scomparsa, comincia la produzione di viti cosiddette “critiche“ per il settore automobilistico. Oeb diventa fornitore unico delle viti testata motore per Volkswagen. Nel 1964 il figlio Giannantonio prende le redini della fabbrica, che mantiene fino a 10 anni fa.

Dal 2015 al timone c’è suo figlio Jody e lui ha fissato il traguardo carbon neutral entro il 2035 e la sfida sul personale: “Mantenere le competenze sarà la chiave del successo – chiarisce immaginando un futuro di evoluzione radicata sull’uomo – l’operaio diventerà sempre più specializzato e non credo che sarà mai sostituito dai robot. Preferisco avere intorno persone”.

Fondamentale il ponte con la scuola “e qui l’aiuto deve venire dall’alto: serve formazione. Il rischio non riguarda ormai la perdita di competenze nella sola produzione, ma anche fra manager e impiegati”.