Omicidio Vivacqua, ennesimo ricorso

La Procura generale si rivolge alla Cassazione nel tentativo di aprire il processo numero 8 sull’omicidio del “Berlusconi di Ravanusa”

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di Stefania Totaro

Potrebbe ancora non essere giunta all’epilogo la storia infinita del processo per l’omicidio di Paolo Vivacqua. A nove anni e mezzo dall’assassinio del “Berlusconi di Ravanusa”, il rotamat siciliano ammazzato il 14 novembre 2011 con 7 colpi di pistola nel suo ufficio di Desio, e dopo oltre cinque anni di processi, la Procura generale ha proposto ricorso in Cassazione contro l’ultima sentenza della Corte di Assise di Appello che ha assolto i presunti mandante e intermediario dell’omicidio, Diego Barba e Salvino La Rocca e ha abbassato dall’ergastolo a 25 anni di carcere la pena, senza la premeditazione, per gli esecutori materiali, Antonino Giarrana e Antonino Radaelli, già in carcere per il successivo omicidio della consuocera di Vivacqua, Franca Lojacono, accoltellata alla gola in auto nel box della sua abitazione per farsi dire dove Vivacqua teneva una grossa somma in contanti. Se il ricorso della Procura fosse ritenuto ammissibile dai giudici romani, si aprirebbe l’ottavo processo. Per due volte già la Cassazione ha rimandato indietro gli atti processuali che finora hanno confermato le condanne di primo grado (la Corte di Assise di Monza ha inflitto 23 anni ai presunti mandanti e l’ergastolo agli esecutori materiali) per approfondire la vicenda identificando un movente che stia in piedi tra quello della ex moglie Germania Biondo (imputata come mandante insieme a Barba ma assolta) lasciata per una donna più giovane, finita per legarsi a un nemico di Vivacqua con il comune intento di eliminarlo e quello della ricerca del borsone con i 5 milioni di euro ricavati dalla vendita di alcuni terreni ritenuta frutto di corruzione. Ora la Procura generale si vuole battere contro le assoluzioni, sostenendo che nell’ultimo processo non sono stati correttamente valutati i tabulati telefonici dei mesi precedenti l’omicidio, che dimostrerebbero come le celle dei cellulari degli imputati hanno agganciato le stesse zone di quelle della vittima che, secondo l’accusa, stavano pedinando per poi farlo fuori. E ancora lo scambio di telefonate tra gli imputati il giorno dell’omicidio, che proverebbe come si sono prima organizzati e poi sentiti ancora dopo l’esecuzione.

E ancora la congruenza tra questa ricostruzione e il racconto del collaboratore di giustizia. "Nel ricorso manca però ancora l’individuazione del movente", puntualizza l’avvocata Manuela Cacciuttolo, difensore di Diego Barba.