Monza, una notte di attesa sotto la tenda per avere notizie di un ricoverato

All’Ospedale San Gerardo i parenti parcheggiati sotto la struttura della protezione civile a fare mattina su traballanti panche da festa della birra e senza nessuna informazione

Il desolante scenario del tendone del pronto soccorso

Il desolante scenario del tendone del pronto soccorso

Monza, 27 luglio 2020 - Notte al “campeggio” San Gerardo. Parcheggiati sotto il tendone della protezione civile, a fare mattina su traballanti panche da festa della birra in mezzo a cestoni abbandonati, ma che nei giorni più neri dell’emergenza Covid venivano utilizzati per smistare la biancheria destinata ai pazienti ricoverati. Una notte da accampati al pronto soccorso. Nell’attesa di notizie sulle condizioni del tuo familiare. Informazioni che non arrivano (quasi) mai. Il malato è dentro, accudito dai medici. I parenti costretti a rimanere fuori per le nuove disposizioni anti-coronavirus. Comprensibile. Ma difficile da accettare quando ad aver bisogno delle cure è un’anziana malata di Alzheimer. Svegliata nel cuore della notte da un fortissimo dolore al petto. La fatica a respirare e la chiamata al 112. L’ambulanza arriva in un niente. I volontari dell’equipaggio si prendono cura della donna come fosse stata la nonna di uno qualunque tra loro. La caricano sull’ambulanza in camicia da notte, scalza. Si fanno lasciare tessera sanitaria e il foglio con il lungo elenco di medicine. Poi partono in sirena verso l’ospedale San Gerardo. Nessun parente a bordo. Il punto di ritrovo è il piazzale del pronto soccorso. Là dove da febbraio nulla è più come prima. All’interno non si può più andare. Tutti i pazienti devono passare dalla tenda-filtro dove gli infermieri bardati dalla testa ai piedi fanno il triage. I familiari, invece, devono star fuori.

A meno che il paziente non sia un minore, un disabile o una persona non autosufficiente. In fondo, come l’anziana portata nella notte. Cammina anche se a fatica, ha problemi di cuore, ma soprattutto è affetta da Alzheimer. “Come può dare risposte attendibili ai medici? Lasciarla sola? Almeno una di noi avrebbero potuto farla entrare”, lo sfogo di una delle due figlie dell’ottantenne. E invece no. “Se volete potete aspettare qui sotto”. Uno degli infermieri indica il tendone proprio accanto a quello del triage. Inizia l’attesa. Seduti su panche di legno come le assi del pavimento. A terra, pianali di plastica e fogli di cartone. Nulla per poter bere un bicchier d’acqua o ingannare l’attesa mangiando qualcosa.

Le prime informazioni arrivano quattro ore dopo. Telegrafiche. Stiamo facendo degli esami. “Ci vuole ancora un’ora circa”, la prospettiva del medico. Un’emergenza allunga i tempi. Nel pronto soccorso di uno degli ospedali più grandi e di riferimento non soltanto della Lombardia è da mettere in conto. “Ma almeno qualcuno che si preoccupasse di aggiornare i parenti, magari, avrebbero potuto mandarlo”, l’appunto di una figlia. Intanto il mattino è arrivato. In ospedale c’è il cambio turno. Nuovi infermieri al triage, nuovi dottori all’interno. Nessuno, però, si fa vivo. Alle 9.30, dopo otto ore di silenzio arriva una telefonata dal pronto soccorso al numero di telefono lasciato all’equipaggio della Croce Rossa: “Potete venire a prendere la signora, la dimettiamo”. Le figlie sono già lì fuori. Non si sono mai allontanate. S’affacciano alla tenda del triage: “Andiamo a prenderla, ve la portiamo fuori noi”. Passa ancora un’ora prima di vedere arrivare un infermiere che spinge la paziente su una carrozzina. Le porte scorrevoli si aprono: “Ecco, la carrozzina potete lasciarla qui, questi sono i fogli di quello che le hanno fatto. Buongiorno”. Poi l’infermiere si volta e rientra. E le figlie rimangono di stucco: “Possibile che nessuno si sia degnato di spiegarci qualcosa? Il medico che l’ha dimessa non sappiamo neanche che faccia abbia –. Se l’hanno dimessa vorrà dire che sta bene, ma almeno una spiegazione a noi parenti avrebbero potuta darcela".