Boselli: le nuove tendenze vengono dalla Cina, i giovani stilisti non imitano più

Il presidente onorario della Cnmi e presidente della Fondazione Italia-Cina riflette sugli scenari futuri

moda cinese

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Crescere fino al 15 per cento o fermarsi a un 6. Questi i due possibili scenari per il futuro dell’industria italiana della moda all’indomani della stagione delle sfilate (quest’anno solo virtuali) e all’avvio della campagna vaccinale. La pandemia è il fattore che più condizionerà l’andamento del settore nei prossimi mesi. Ma già ora non mancano segnali positivi. «La moda dei grandi brand gode di buona salute», sottolinea Mario Boselli, presidente onorario della Camera nazionale della moda e presidente della Fondazione Italia-Cina.

La moda italiana vende in tutto l’Estremo Oriente – aggiunge – ma la vera sorpresa è che continua a farlo anche negli Usa nonostante la pandemia».

E le piccole e medie imprese come quelle lombarde? «Soffrono, perché non hanno la forza di aggredire i mercati lontani. Operano a livello europeo, dove la crisi è una realtà. Però un dato positivo c’è».

Quale? «Le piccole e medie aziende del tessile e della subfornitura vanno bene. Perché essendo fornitrici delle grandi griffe beneficiano del loro positivo andamento».

Le ultime sfilate, che si sono svolte in modo virtuale, hanno registrato 45 milioni di visualizzazioni. Oltre metà delle quali grazie ai cinesi. Un dato positivo per il futuro? «Sì, purché non si tralasci un dato. Le visualizzazioni le fanno tutti, anche i semplici curiosi, non solo i buyer. A mio parere il 90-95 per cento di chi si è avvicinato alle sfilate tramite Internet è rappresentato dai final consumer, non compratori be-to-be. Dunque il futuro non potrà che essere un sistema misto fra online e presenza fisica».

Perché tanto interesse fra i cinesi? «Perché amano l’Italia e il nostro stile di vita. Food, Fashion e Design sono le tre parole chiave del vivere bene. Per i cinesi la moda è al primo posto, perché serve ad apparire. E la moda italiana è il pret a porter di alta gamma. Non è l’alta moda, di cui ha la leadership la Francia, e che è per pochi. Qui parliamo di milioni di cinesi e di un grande indotto».

È l’e-commerce la chiave di volta? «Prima della pandemia mi recavo in Cina cinque-sei volte all’anno, e l’ho vista cambiare. Da fabbrica del mondo, quale era, a laboratorio per il futuro. Le vendite online lì erano una realtà consolidata quando noi iniziavamo a scoprirle. La pandemia, poi, ha accelerato queste dinamiche».

E i negozi allora? «La ricetta, anche questa cinese, è un’integrazione fra il negozio fisico e quello virtuale. Questa formula ha un nome: o-to-o, dall'online all’offline. Il cinese abbiente ama il prodotto del luxury italiano. Ma ama ancora di più l’esperienza di acquisto del prodotto italiano. E quella la si vive solo in negozio».

Nel suo nuovo piano quinquennale il Partito comunista cinese si è pronunciato a favore dell’incremento dei consumi interni. «Non sapendo, vista la situazione attuale, quando rivedremo i turisti cinesi a Milano dobbiamo sforzarci a portare le nostre produzioni lì. Un’occasione per le pmi è offerta dalla fiera China International Import Expo che si terrà in novembre a Shangai».

Cosa pensa dei giovani stilisti cinesi? «Sono molto originali e creativi. Non possono più permettersi di imitare. Devono partire dalle loro radici e interpretarle in chiave moderna. Questa è la strada vincente. Molti hanno iniziato a intraprenderla e la seguono acquistando tessuti italiani».