Il soffitto di vetro è ancora solido: più rosa nelle stanze dei bottoni per cambiare il volto alle imprese La gestione della famiglia interrompe tante carriere

Intervista a Stefano Scarpetta, direttore Ocse per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali

MILANO

Il «soffitto di vetro» che impedisce alle donne di entrare nella stanza dei bottoni delle aziende «è ancora molto solido», secondo Stefano Scarpetta (nella foto a destra), direttore per l’occupazione, il lavoro e gli affari sociali dell’Ocse, l’organizzazione dei Paesi sviluppati che ha sede a Parigi. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: «A molte aziende manca la creatività femminile, essenziale per competere».

Sono sempre troppo poche, malgrado le quote rosa, le donne che entrano nei cda?

«Pochissime. Ci sono donne solo nel 20% delle aziende quotate dei Paesi dell’Ocse e di solito sono pochissime, per cui hanno scarsa influenza sulla gestione aziendale, tranne in Belgio e in Italia, dove c’è la regola del 33%, e in Svezia dove c’è un impegno volontario delle aziende a distribuire equamente le posizioni. Ma in generale la situazione resta molto squilibrata: solo nel 5% delle aziende quotate c’è un amministratore delegato donna».

Come si arriva a questo risultato sconforante?

«La gestione familiare continua a pesare molto di più sulle donne che sugli uomini, portando al famoso problema delle carriere interrotte, molto presente sul mercato italiano. Al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro, la quota di partecipazione delle donne e degli uomini è quasi uguale. La divaricazione fra uomini e donne avviene dopo. In molti i Paesi le donne si ritirano dal mercato per qualche tempo attorno ai 30-35 anni, quando nascono i figli, ma poi nella maggior parte dei casi ci rientrano, mentre in Italia spesso restano fuori dal mercato del lavoro per tutta la vita. È così che si arriva al divario drammatico, fra una partecipazione dell’80% da parte degli uomini, contro una quota delle donne attorno al 60% nei Paesi come l’Italia».

Quali misure servono per correggere il tiro?

«Per favorire il rientro delle madri sul mercato del lavoro servono strutture pubbliche che si occupino dei bambini nella fascia prescolare, sia nell’età da nido tra 0 e 3 anni, sia nell’età da asilo da 3 a 5, perché moltissime donne non hanno i mezzi per pagare un asilo privato o una baby sitter. Un altro punto dolente è la cura degli anziani: chi resta a casa per occuparsi dei bambini spesso si prende cura anche dei genitori, propri o del marito. Anche qui ci vorrebbe un intervento dello Stato per evitare che le donne restino incastrate in queste gabbie. Le strutture pubbliche sono importanti, perché spesso le retribuzioni delle donne sono più basse e non conviene lavorare, per poi versare tutto il proprio stipendio a una baby sitter». Da qui alla carenza di donne manager, però, ce ne passa...

«Il divario della base si ripercuote anche ai livelli alti. Nelle imprese dove lavorano poche donne è più difficile che queste emergano. È ampiamente dimostrato che non bastano casi sporadici di presenza femminile in un contesto molto maschile per attingere ai vantaggi della parità di genere. Non basta spuntare in maniera artificiale la casella ’donne in azienda’ o ’donne in cda’ per avere automaticamente un effetto positivo. Ci vuole una partecipazione diffusa delle donne per cambiare».

Quali sono i vantaggi che le donne portano in azienda? «Le donne danno più spazio agli altri, sono più brave a lavorare in team, sono più creative e contribuiscono chiaramente con un valore aggiunto specifico alla governance delle imprese dove sono più presenti, che spesso sono più competitive di altre. Ma ripeto, la presenza non dev’essere sporadica, serve una partecipazione ampia, altrimenti i vantaggi si annullano e il circolo vizioso delle imprese tutte maschili si perpetua».

Elena Comelli

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