STEFANIA CONSENTI
Cronaca

Viaggio nel pianeta Uzbekistan. Sogni, miti e memoria del dopo Urss. Mostra evento all’Hangar Bicocca

Saodat Ismailova vive e lavora fra Parigi e Tashkent, filmaker della prima generazione post sovietica. L’esposizione riunisce sei film e sette sculture: un’esplorazione delle radici evocando temi universali.

Viaggio nel pianeta Uzbekistan. Sogni, miti e memoria del dopo Urss. Mostra evento all’Hangar Bicocca

Saodat Ismailova vive e lavora fra Parigi e Tashkent, filmaker della prima generazione post sovietica. L’esposizione riunisce sei film e sette sculture: un’esplorazione delle radici evocando temi universali.

"La memoria? Per me è stabilità, è la bussola che orienta tutta la mia ricerca, più che mai necessaria in questi tempi". Saodat Ismailova, filmaker ed artista della prima generazione uzbeka dell’era post sovietica, vive e lavora fra Parigi e Tashkent. E a Milano presenta la sua prima mostra antologica negli spazi (splendidi) di Pirelli HangarBicocca. A See Under Our Tongue (da domani al 12 gennaio, ingresso libero) è un’immersione ipnotica fra video e installazioni, su temi come la natura e il rapporto con l’uomo, le tradizioni, i saperi ancestrali e la rappresentazione della femminilità. L’artista attinge a piene mani dal patrimonio sociopolitico culturale della sua terra d’origine, l’Asia centrale, evocando temi universali. E viene voglia, ad ascoltarla, di prendere un aereo e andare a visitare i luoghi che svela attraverso le sue opere. Come Arslanbob (film girato sulle rive dell’Amu Darya), il seme d’oro di Amanat e il calco in resina di una grotta in The Mountain Our Bodies Emptied. La memoria getta "semi". E un seme racchiude "segreti, misteri, è essenziale, fragile ed eterno". A quale opera è più legata? Sorride Saodat, difficile dire. Quale amare per prima? Un suggerimento lo offre: "La storia che si sviluppa attorno al mito della tigre, una bella chiave di lettura per il pubblico...". The Haunted (2017) è un incontro simbolico con la tigre del Turkestan, estinta in epoca sovietica in seguito al processo di industrializzazione. L’animale diviene metafora della ricchezza di tutte le lingue, memorie e paesaggi che stanno scomparendo o che vengono alterati da sistemi di controllo e di potere. Considerata un archetipo sacro e messaggero degli antenati, la tigre continua a vivere oggi nella memoria collettiva e nei sogni delle persone. E ancora. Presentata in Italia in occasione della Biennale di Venezia nel 2022, Chillahona è un’installazione video accompagnata da un grande ricamo, che traspone elementi del film nel tessuto. Reinterpretazione moderna del ricamo “cosmologico” uzbeko noto come falak, questo oggetto è stato disegnato da Ismailova e realizzato dall’artigiana Madina Kasimbaeva: rappresenta una cosmologia in dialogo con le immagini del film, che affronta il senso di vuoto e disordine durante il periodo della Perestrojka in Uzbekistan, dopoi il crollo dell’Unione Sovietica. Il titolo? Altamente simbolico nella tradizione, legato alla pratica catartica femminile di osservare il silenzio per 40 giorni, Chilla in persiano significa quaranta.

Suggestiva, poi, l’installazione realizzata con il crine di cavallo. Veniva impiegato per segnalare le tombe dei santi o per la produzione di veli femminili.

La scultura è sospesa, lunga undici metri; vi si proiettano parole del giovane poeta contemporaneo uzbeko Jontemir Jondor. As We Fade, (2024) è un’opera costituita da una serie di 24 sottili pannelli sospesi di seta bianca sui quali si scorgono immagini in movimento. Sono disposti in fila uno accanto all’altro: scorrono immagini che rappresentano pellegrini e abitanti della montagna Sulamain-Too, al centro della città di Osh. C’è solo da perdersi in queste "suggestive" narrazioni, circondati dalle due grandi installazioni che racchiudono l’intero spazio espositivo, Stains of Oxus (2016) e Arslanbob (2023-24), film si diceva girati rispettivamente sulle rive dell’Amu Darya e nell’area oltre il Syr Darya, nell’attuale Kirghizistan. La mostra ripercorre metaforicamente il viaggio del seme di dattero – dal suo inizio, conservato nella bocca di una figura mitica di nome Arslanbob, fino al suo dono a colui che sarebbe diventato il più importante e noto mistico dell’Asia centrale, Akhmad Yassawi, che con esso fondò la foresta di noci.