Francesco Maglia sta cercando da un anno una sarta in grado di cucire con ago e filo, per trasmettere il sapere di una storica dipendente arrivata all’età della pensione. Una figura professionale divenuta introvabile, soprattutto se si guarda alla fascia d’età sotto i 50 anni. È solo una delle sfide che sta affrontando il titolare della ditta fondata dalla sua famiglia quando correva l’anno 1854, che in via Ripamonti crea ombrelli fatti a mano. Sette dipendenti, tra cui sei artigiani, e una produzione destinata per il 95% all’esportazione. "Una grossa fetta delle vendite si concentra negli Stati Uniti – spiega – poi in Svizzera, nei Paesi del Nord Europa, in Giappone o nel Sud Est Asiatico. Paesi dove i nostri prodotti non vengono acquistati solo da clienti benestanti ma anche da persone con un reddito medio, in cerca di ombrelli artigianali che possano durare nel tempo. Ad esempio può comprarli un professore tedesco abituato ad andare al lavoro a piedi anche quando piove. In Italia, all’incirca dagli anni ’80, si è perso un po’ l’interesse per questo tipo di oggetti che, ovviamente, hanno un costo più alto rispetto a ombrelli di produzione industriale".
Il marchio Francesco Maglio Ombrelli resiste proprio grazie all’export, portando avanti una tradizione che rischia di spegnersi senza un ricambio generazionale. "Riscontriamo tra i giovani una diffusa povertà di capacità manuali – spiega – e il costo della vita di Milano è un problema, perché se anche troviamo una risorsa non è disposta a trasferirsi da altre zone d’Italia. Servirebbero norme diverse, anche su contratti e formazione, per venire incontro a realtà come la nostra".
Francesca Ebreo, altra artigiana milanese, produce borse su misura nella sua bottega “Terramia“ in via Canonica 72, zona Chinatown. Tra i clienti, sempre più turisti. Originaria delle Marche, ha iniziato dieci anni fa come autodidatta, dopo una laurea in Conservazione dei beni culturali, trasformando in una professione la sua passione per la moda vintage. Ha scelto di aprire la sua impresa nel 2020, poco prima che scoppiasse la pandemia. "Non ho ricevuto ristori – racconta – e con tanta fatica ho superato quel periodo rimanendo a galla. Poi c’è stata la crisi delle materie prime, l’inflazione e l’aumento del costo della vita. Si cerca di resistere, puntando sulla qualità e portando avanti una professione che purtroppo sta morendo. Quando qualcuno dice che una borsa artigianale costa troppo, non considera il lavoro che c’è dietro". Un lavoro fatto attraverso una macchina da cucire di 50 anni fa, nuove iniziative come un podcast realizzato nella bottega, ai nastri di partenza.
Andrea Gianni