Piazza Fontana: un buco nel muro, le armi nascoste. E la pista nera decolla davvero

Novembre 1971, un manovale trova a Castelfranco la santabarbara del libraio Ventura. E poi la strada delle borse usate a Milano

Il neonazista di Ordine nuovo Franco Freda durante uno dei processi a suo carico

Il neonazista di Ordine nuovo Franco Freda durante uno dei processi a suo carico

Milano, 1 dicembre 2019 Alla fine crolla tutto. Novembre 1971, quasi due anni dopo la bomba nella banca di Milano. A Roma l’inchiesta sulla “pista rossa” contro il ballerino Pietro Valpreda e gli anarchici (più l’infiltrato neofascista Mario Merlino) è chiusa da un anno ma il processo non parte. In Veneto, la “pista nera” legata ai neonazisti di Ordine nuovo Franco Freda e Giovanni Ventura, alimentata dalla denuncia del giovane professore di francese Guido Lorenzon, non fa passi avanti.

Ma a novembre del ’71 ci pensa un muratore. È quello che a Castelfranco Veneto nel Trevigiano, mentre ripara il tetto di una casa, inavvertitamente sfonda il divisorio dell’abitazione confinante, quella di Giancarlo Marchesin, consigliere comunale socialista della cittadina. Dal buco nel soffitto spunta un arsenale di armi, esplosivi e munizioni Nato. Marchesin finisce in manette e ci mette pochissimo a spiegare che tutta quella roba appartiene al suo amico libraio Ventura, che l’ha nascosta lì dopo Piazza Fontana. È benzina sul fuoco dell’indagine. Il pm trevigiano Pietro Calogero e il giudice istruttore Giancarlo Stiz interrogano il giovane che aveva tenuto nascosto la santabarbara prima di Marchesin: si chiama Ruggero Pan, un fattorino che spesso lavora per Ventura e che riferisce un sacco di discorsi ascoltati dal libraio e dal suo amico Freda. Pan aggiunge che Ventura, dopo gli attentati sui treni di agosto, gli aveva chiesto di acquistare per suo conto una cassetta metallica di marca Jewell, ma lui si era rifiutato. In una cassetta della stessa marca verrà sistemato l’esplosivo che esplode a Milano. L’ordigno sarà nascosto dentro una borsa Mosbach & Gruber, come quella ritrovata con una bomba inesplosa, sempre quel 12 dicembre ’69, in un corridoio della Banca commerciale. Già due giorni dopo gli investigatori scoprono che 4 borse di quello stesso tipo erano state acquistate il 10 dicembre in un negozio di Padova da un uomo che la commessa rinconosce (in foto) per Franco Freda. Ma il rapporto di polizia inviato alle questure e all’Ufficio affari riservati (il servizio segreto civile) resterà per tre anni in un cassetto.

Finché il muratore di Castelfranco sfonda il muro sbagliato e tutto crolla. E così, dopo le rivelazioni del professor Lorenzon, dopo le indagini a Padova su Freda e Ventura da parte del commissario di polizia Pasquale Juliano sollevato dall’inchiesta e trasferito in Puglia, dopo le armi di Ventura ritrovate nel controsoffitto, insomma dopo tutto questo finalmente la “pista nera” decolla. Gli inquirenti Calogero e Stiz, grazie anche alle intercettazioni, capiscono che il piano di attentati ideato dagli ordinovisti è stato messo a punto in una riunione padovana notturna il 18 aprile del ’69 a casa del giovane camerata Ivano Toniolo, presenti Freda, Ventura e un “pezzo grosso“ arrivato alle 23 in treno da Roma. Marco Pozzan, il bidello braccio destro di Freda dice che era Pino Rauti, leader nazionale di Ordine nuovo. Da qui, il mandato di cattura e gli atti spediti a Milano. (6-continua)  

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