
Spesso pittori e autori per avere uno sconto sul pranzo lasciavano loro disegni, foto, scritti Così le pareti della trattoria divennero una galleria d’arte
Milano, 15 maggio 2017 - Philippe Daverio, habitué di quelle salette, meglio, affezionato a quegli incontri, non lesinò le parole quando, pochi mesi fa, insieme ad altri studiosi lanciò un appello: «Quel patrimonio – disse – rappresenta una parte importante della storia milanese e rischia di essere disperso sotto silenzio, comprato da tante persone diverse, senza che la Soprintendenza o il Ministero della Cultura facciano nulla per evitarlo». E concluse, Daverio, con l’abituale elegante e precisa irruenza: «Altrimenti potremmo chiamarlo crimine di mancata attenzione».
Per ora opere e luogo vivono divisi. Due realtà separate. Ma le opere no, per fortuna, loro e nostra, continuano a dialogare silenziosamente. Alcune da tempo quasi immemorabile. Sono i quattrocento tra quadri, foto, pannelli, disegni, statue che per novant’anni hanno arredato prestigiosamente la storica trattoria Bagutta, sede del premio letterario più antico d’Italia (e più pulito…). Acquistati in blocco all’asta giudiziaria seguita allo sfratto dei gestori del locale. Prezzo di partenza: mezzo milione di euro. Nessun acquirente. Seconda tornata: il lotto è stato assegnato per la cifra di 375 mila euro. Tutto in blocco, com’era negli auspici di Daverio e di tanti appassionati di storie e Storia milanese.

Un piccolo grande museo, le opere alle pareti del Bagutta. Il solo Mario Vellani Marchi, a partire dal 1926, per quarant’anni dipinse 240 liste sul retro dei menu del ristorante. Deliziosi minuscoli quadri, e insieme una cronistoria italiana. Ritratti senza censure, da Filippo De Pisis a Eugenio Montale, da Italo Balbo a Indro Montanelli, ma anche da Lucia Bosè a Fausto Coppi. Memorie e tracce di Alberto Arbasino e Carlo Cassola, Giuseppe Novello, Orio Vergani, Arturo Toscanini. «Regali: alcuni pittori che mangiavano qui – raccontò proprio al Giorno nel 2010 il proprietario Marco Pepori – ci pagavano così. Era il loro modo di ottenere uno sconto sui pasti. Un locale come questo, dove arte e letteratura s’intrecciano così strettamente, è più unico che raro».