Giulia
Bonezzi
Scrivere attraversati dal dubbio che si potrebbe essere fortunosamente letti tra 50 anni infonde sempre un senso di vertigine. Soprattutto se non sei Umberto Eco. Chi scrive ha fatto le superiori nel Novecento, un professore di Fisica definiva il computer "il cretino veloce": al servizio della nostra intelligenza umana, tanta o poca che sia. La tentazione di citarlo viene, leggendo gli articoli general generici svolti dal collega ChatGPT. Ma sarebbe ingiusto fermarsi alla beta di un’"intelligenza artificiale" che sostituirà molti mestieri a cominciare dal giornalista, almeno a dar retta a certi turbo-integrati (parafrasando Eco, 1964). Non solo informatici o “scrittori di codice”, come alcuni amano definirsi, animati da un legittimo conflitto d’interessi, ma anche alcuni esponenti della categoria pronti a massacrare l’errore umano, le imprecisioni di un disgraziato che racconta qualcosa appena avvenuto o in corso tra fonti di carne come lui che non rispondono, si contraddicono, sbagliano in buona o mala fede, accollandogli anche le castronerie aggiunte da altre mani nel copia-e-incolla (quello sì più degno d’un computer), e bramandolo rimpiazzato da una macchina prevedibile e perfetta, libera da sciatterie e passioni, che non sbaglia i congiuntivi. ChatGPT non li sbaglia, e purtroppo non si può dire lo stesso di molti umani. Non trova neanche notizie, nonostante possa processare, selezionare e reimpastare in stile gradito ai motori di ricerca una mole impressionante d’informazioni già in Rete. La scrittura algoritmica è piatta, ma potrà essere addestrata allo storytelling. Che invece impari, più che a distinguere in automatico il Vero dal Falso (roba sovrumana ma non artificiale), a ragionare e dubitare è difficile immaginarlo. Lo fanno sempre tutti i giornalisti? No, ma si può chiedere loro lo sforzo. A un algoritmo, che viene venduto imparziale anche se riflette l’interesse di chi l’ha allenato, che vogliamo dire? Collega del futuro, qui ci si augura che se mai ci leggessi tu non sia il prodotto di un programmatore. Per la speranza in quella vertigine che un algoritmo non può provare. Un scrittore di codice, colto dal dubbio che anche lui un giorno potrebbe essere sostituito (male) da una macchina, forse invece può.