
Il professor Lorenzo Bello con la sua équipe
Milano , 30 settembre 2024 – Quella del professor Lorenzo Bello, con il suo team di scienziati, è la storia di un luminare che ha scelto di rimanere in Italia. E proseguire la sua lotta contro i tumori cerebrali iniziata 25 anni fa puntando sullo sviluppo della ricerca scientifica nel nostro Paese, andando controcorrente rispetto alla fuga dei cervelli.

Una scelta decisa e consapevole, nonostante le offerte di lavoro “difficili da rifiutare” che il docente di Neurochirurgia presso il Dipartimento di Oncologia ed Emato-oncologia dell’Università degli Studi di Milano continua a ricevere da atenei e centri di ricerca all’estero, in particolare dagli Stati Uniti.
Ad Harvard ha già trascorso una lunga parentesi della sua carriera, dal 1997 al 2002, per poi tornare a Milano dove ha ottenuto rivoluzionarie scoperte nel trattamento dei tumori cerebrali, che hanno migliorato la qualità di vita dei pazienti, accumulando riconoscimenti internazionali.
Professor Bello, perché rimanere in Italia?
“Nel corso della carriera ho ricevuto e continuo a ricevere interessanti offerte dall’estero, ma il mio legame con l’università pubblica italiana è molto forte e difficile da scalfire. La ricerca scientifica italiana ha raggiunto livelli molto avanzati, e ha consentito di ottenere grandi successi. Ma l’università pubblica italiana ha un altro valore aggiunto: l’accesso è consentito a persone di diverso ceto sociale, non ci sono le barriere che esistono ad esempio negli Stati Uniti. E questa mission dell’università pubblica consente di far crescere i migliori talenti, cercando poi di trattenerli. C’è anche un altro valore aggiunto del sistema italiano ed europeo”.
Quale?
“L’assistenza sanitaria universale, considerando sia la sanità pubblica sia la sanità privata accreditata, consente di traslare i benefici di una scoperta su una popolazione più ampia, non solo su chi può permettersi le cure”.
Quanto pesa il gap tra l’Italia e altri Paesi sui fondi stanziati per la ricerca?
“La produzione scientifica italiana è equiparabile a quella statunitense, solo che nel nostro Paese c’è una difficoltà estrema nel reperimento dei fondi. Un contributo fondamentale, nel nostro caso, arriva da Airc, la fondazione per la ricerca sul cancro. Anche con Paesi europei come la Francia esiste un gap significativo nei finanziamenti, speriamo che in futuro si riesca a colmarlo almeno in parte e ad andare avanti”.
Di fronte alla fuga dei cervelli, quali leve utilizzate per trattenere e attirare talenti?
“La nostra è una equipe molto giovane, con età media 30-40 anni. L’unicità di questo team sta nel fatto che il lavoro di squadra avviene tra chirurghi, neuropsicologi, neurofisiologi clinici, neuroradiologi e ricercatori impegnati nelle scienze di base che integrano continuamente le proprie competenze. La nuova rettrice si sta spendendo molto per stimolare lo sviluppo delle attività dei giovani. Per trattenere talenti cerchiamo di fare in modo che ognuno possa portare avanti i propri progetti con la massima libertà e autonomia, nell’ambito di una battaglia comune con risultati tangibili. Così riusciamo ad attirare anche talenti dall’estero. Il nostro protocollo funziona, ed è stato esportato in tutto il mondo”.
Quali sono le caratteristiche degli interventi della vostra equipe?
“I casi trattati sono ormai migliaia e consentono di poter eseguire delle resezioni che vanno oltre i confini della lesione visibili alle immagini anche nei casi giudicati fino a ieri non operabili. Tra questi ci sono i tumori che crescono nelle strutture nervose che garantiscono le abilità motorie e che, quando lese, determinano intollerabili inabilità portando a una pessima qualità di vita del malato. Una delle condizioni del successo della tecnica è la stretta collaborazione con il laboratorio di fisiologia del controllo motorio iniziata nel 2006, che ha consentito di poter affinare le tecniche finalizzate al trattamento di lesioni che potrebbero compromettere queste abilità. Tra i risultati più importanti c’è l’aumento delle possibilità di sopravvivenza e della qualità della vita, raddoppiando l’intervallo di tempo tra la scomparsa del tumore e la possibile recidiva”.